Catania è cosa nostra! Storie di ordinaria legalità. È questo il nome che hanno scelto i ragazzi del Movimento studentesco di Giurisprudenza per lincontro organizzato ieri pomeriggio nella sede delex facoltà a pochi giorni dallanniversario dellassassinio del giudice Giovanni Falcone. Lo scopo è tanto semplice quanto utile e apprezzato dagli ospiti intervenuti, tanto più perché voluto da un gruppo di giovani che hanno partecipato numerosi: parlare di mafia con due rappresentanti della legalità. Due che giornalmente, con il proprio lavoro, cercano di scardinare il sistema da «catena di santAntonio», come è stato definito lintreccio di soldi, amicizie e accordi di Cosa Nostra. Loro sono Agata Santonocito, sostituto procuratore della direzione distrettuale antimafia di Catania e Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari a Palermo. I due hanno parlato della loro esperienza e delle difficoltà che devono affrontare. Insieme a loro Giovanni Caruso del Gapa (Giovani assolutamente per agire, portatori di legalità e antimafia sociale nel quartiere di San Cristoforo) e Salvo Grasso di AddioPizzo.
«Ci sono delle differenze tra Catania e Palermo perché la mafia ha un carattere interprovinciale che gli permette di infiltrarsi e controllare la pubblica amministrazione al fine di trarne vantaggi economici» spiega Agata Santonocito. Il sostituto aggiunge che a Catania, nonostante ci sia legemonia di Cosa nostra che fa capo alle famiglie Santapaola, Ercolano e Madonia, quest’ultimo «gruppo staccato da quello di Caltanissetta», coesistono gruppi che utilizzano metodi mafiosi, ma che «non hanno lambizione e la capacità propri di Cosa Nostra». Così esistono due livelli di operatività racconta ancora il sostituto procuratore etneo. «Il primo, più noto, è affidato ai gruppi di stanza sul territorio e permette le entrate ordinarie e per mantenere e rafforzare lintimidazione ai cittadini». Da questo livello trae forza il secondo, che è più complesso e delicato. Si tratta infatti degli intrecci e delle collusioni che permettono di arrivare a cifre ben più importanti che non quelle legate al ritiro del pizzo da un commerciante. «Se ne occupano gli esponenti apicali dellorganizzazione mafiosa che si offrono a politici e imprenditori come agenzia di servizi. Non è importante avere subito i soldi, ciò che conta a questo livello è creare quella rete di potere che consente anche di dirigere il flusso di denaro delle pubbliche amministrazioni».
I reati di cui si parla sono tutti contemplati nel regime carcerario del 41bis: «Un regime ai limiti della costituzionalità per la sua durezza», afferma il giudice Morosini che ammette che diffida da quei politici che sbandierano la loro volontà di inasprire ancor di più tale regime. Cè un evidente problema di comunicazione e di conoscenza della verità nella nostra penisola, secondo gli intervenuti. Per molti se non si sente lodore della polvere da sparo la mafia non esiste, per altri è un fenomeno prettamente siculo. Ma secondo gli ospiti dei ragazzi del Movimento studentesco è unassurdità. «La mafia è un problema nazionale che si combatte con linformazione della verità». Come diceva Carl Marx, bisogna conoscere il nemico per combatterlo, iniziando dalla consapevolezza che non esistono infiltrazioni al nord dellItalia. «È una frase con implicazioni razziste spaventose che non tiene conto che sono le imprese del nord che cercano prestazioni mafiose per sbaragliare la concorrenza, ad esempio per lo smaltimento dei rifiuti pericolosi» dichiara Morosini. «O che vengono a chiedere sia l’autorizzazione amministrativa che quella mafiosa quando vengono a fare dei lavori qui» aggiunge Santonocito. La verità, secondo i due rappresentanti della legge è che parlare di mafia dà fastidio anche a degli insospettabili e il non parlarne fa quasi cadere largomento nel dimenticatoio con conseguenze anche nelle decisioni e nei provvedimenti che il parlamento deve prendere. Oltre al fatto che i collusi sono dappertutto e remano sempre in favore dei propri interessi personali.
E a mo’ d’esempio, il giudice per le indagini preliminari ha ricordato il caso di un assessore regionale siciliano a capo di un comitato daffari composto da politici, mafiosi e imprenditori ai quali faceva arrivare moltissimi soldi dei bandi pubblici provenienti dal suo assessorato. «Nessuno gli faceva opposizione, nessuno lo controllava e la sua tranquillità era evidente anche dalle intercettazioni» spiega Morosini, che aggiunge «Il suo unico timore erano le manette della magistratura». Un caso emblematico che si ripresenta spesso e che suggerisce come a dover cambiare sia il sistema culturale attraverso la giusta prevenzione legale e morale. Questa però non può essere affidata alla magistratura in quanto «nasce dalla responsabilità extrapenale e noi, invece, possiamo intervenire a cose fatte». Inoltre creerebbe problemi di sovraesposizione per i magistrati che verrebbero facilmente tacciati di “fare politica” «e noi questo non possiamo permetterlo», conclude il giudice.
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