Faber, mito anarchico e senza età

“Quasi una riunione carbonara”, ironizza Luigi Viva (scrittore “appassionato” di musica, amico di De André e autore della sua biografia più accreditata) mentre abbandona il tavolo dei relatori per avvicinarsi alle pochissime sedie occupate. Il Prof. Antonio Di Grado lo ha introdotto suggerendo che “gli eletti” sono sempre pochi, persino quando si tratta di un mito che ha il potere di far coincidere la passione di un padre con quella di una figlia. Eppure, chi avesse disertato l’incontro per timore di essere sottoposto alle verbosità di certa critica, tanto più superflua quanto più un’opera sfiora le vette del sacro, si sarebbe trovato davanti uno che odia essere definito “critico” perché i critici li detesta. Uno che, fosse per lui, farebbe parlare solo De André, le sue parole, le sue musiche e la sua vita. Non a caso largo spazio è dedicato alla proiezione di interviste e spezzoni di concerti, non a caso il suo libro è una biografia, scritta per rispondere ad un’esigenza tutta privata e con il vantaggio di aver conosciuto Fabrizio di persona, di avergli potuto chiedere il permesso e di aver sottoposto al suo vaglio la stesura.

Il ritratto tracciato da Viva si addentra nel vissuto del genio, rintraccia nello zio Francesco che ritorna dal campo di concentramento il prototipo di tutte le figure dolenti della sua galleria di personaggi, sottolinea l’importanza dell’ antifascismo (ereditato da un padre di destra), e quindi lo scontro con la famiglia, catalizzatore di quella garbata contestazione del potere che guida i suoi passi umani ed artistici, l’anticlericalismo, l’alcolismo. Si passano poi in rassegna i miti di De André, che come qualsiasi altro uomo non poteva non avere i suoi: dal poeta anarchico Riccardo Mannerini, che “gli insegna a distinguere l’utile dall’inutile”, allo chansonnier George Brassens, personaggio così sacro a Fabrizio che egli si rifiuterà sempre di incontrarlo per timore di ridimensionarne l’aura mitica. Da questi due punti di riferimento lo stimolo a leggere i classici dell’anarchia, “le poche idee ma fisse” che lo faranno schierare una volta per tutte. Viva racconta di essersi trovato in perfetta sintonia nelle discussioni con Fabrizio, di sposarne tuttora l’idea che la vera cultura coincida, appunto, con l’anarchia, con la libertà da ogni asservimento. Pensiero che gli creerà qualche problema di coscienza nel momento in cui si ritroverà ad essere socio fondatore della Fondazione De André e a chiedersi se sia lecito rappresentare un anarchico attraverso un’istituzione.

“Ma Fabrizio non è solo un poeta” – ci tiene a puntualizzare Viva. In polemica con l’amico Michele Serra e da buon “appassionato” di musica, egli fornisce dati per comprendere quale preparazione, quale straordinario senso del tempo si celino dietro quella voce sciamanica. Un poeta, dunque, un grande musicista, ma, non ultimo, un maestro di pensiero alla stregua di Pasolini e del nostro Sciascia. E di questi due Fabrizio, che si orienta a star zitto quando non ha meraviglie da esprimere, condivide la solitudine, il cui esercizio consente di consegnare alla morte una goccia di splendore, come si legge in un’intervista che Viva invita a procurarsi. La solitudine, anche forzata, come quella del sequestro che De Andrè “ripudiava mentalmente, ma comprendeva sentimentalmente” e che volle sminuire tacendo i 35 chili persi e rischiando di farlo apparire una vacanza. In questa malinconica solitudine si trova posto anche per un De André grasso, per la sua frequentazione di amici come Paolo Villaggio e per una frecciatina a Fiorello che poco appropriatamente l’ha definito “un cazzaro”. Viva mette in guardia dai rischi di banalizzazione e distorsione cui va incontro l’esplosione del fenomeno mediatico che sta accompagnando il decennale, il tripudio di trasmissioni, di pubblicazioni e di concerti in cui si (de)canta De André. Pericoli resi maggiori dalla problematicità di un personaggio che chiedeva sempre indietro le interviste prima di autorizzarne la pubblicazione e che, a detta dell’amico, non sarebbe contento della promiscuità che si aggira intorno alla familiarità dell’appellativo “Faber”. Del resto lui è un principe, “un principe genovese”, “un principe anarchico”, per servirsi delle bellissime parole di Maurizio Maggiani, il quale, come De André con Brassens, si rifiutò sempre di incontrarlo. E noi oggi secondo Viva dovremmo “diffidare di chi ci parla di De André. Perché l’unica cosa in cui credere è Fabrizio. Che non è di tutti. La sua opera è di tutti. Ma Fabrizio non vorrà mai essere di nessuno”. Forse è anche per questo genere di diffidenza che ieri  l’auditorium era vuoto.

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Cioran, uomo di grande lucidità, diceva che la vita, più che una corsa verso la morte, è una disperata fuga dalla nascita. Quando veniamo al mondo affrontiamo una sofferenza e un disagio che ci portiamo avanti tutta la vita, quelli di un passaggio traumatico da una situazione conosciuta all’ignoto. Questo è il primo grande disagio. Il secondo, non meno traumatico, è quando ci rendiamo conto che dovremo morire. Per me questa spaventosa consapevolezza è arrivata verso i quattro anni. L’uomo diventa “grande”, diventa spirituale o altro, quando riesce a superare questi disagi senza ignorarli. Ora, se a essi si aggiunge anche l’esercizio della solitudine, ecco che allora forse, a differenza di altri che vivono protetti dal branco, alla fine della tua vita riesci a “consegnare alla morte una goccia di splendore”, come recita quel grande poeta colombiano che è Alvaro Metis. Se ti opponi, se ti rifiuti di attraversare e superare questi disagi, per sopravvivere ti organizzi affinché siano gli altri a occuparsene e deleghi. Questa rinuncia ti toglie dignità, ti toglie la vita. Credo che l’uomo, per salvarsi, debba sperimentare l’angoscia della solitudine e dell’emarginazione. La solitudine, come scelta o come costrizione, è un aiuto: ti obbliga a crescere. Questa è la salvezza.” (Fabrizio De Andrè. Una goccia di splendore. Un’autobiografia per parole e immagini, G. Harari)

Barbara Distefano

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