Etna libera, il direttore di Meridiani Montagne «Una società senza pericoli è immobile»

«È vero, il primo spicchio di sole in Sicilia viene proprio dall’Etna». Di chiarore che sorge dalla natura se ne intende Marco Albino Ferrari, milanese classe 1965, autore del libro Le prime albe del mondo, ex alpinista e direttore della rivista Meridiani Montagne, punto di riferimento per gli appassionati italiani. Tra questi, anche gli escursionisti catanesi alle prese con gli alterni divieti di fruizione del vulcano, disposti dalla prefettura sulla base dell’ormai noto documento della Protezione civile regionale. Il quale stabilisce l’obbligo di accompagnamento da parte delle guide per quanti vogliano visitare la parte sommitale dell’Etna e l’assoluto divieto in caso di eruzioni. Una stretta misura di sicurezza che ha qualche precedente nella storia, ma che non è mai riuscito a frenare gli amanti della montagna.

Da giornalista e alpinista, cosa pensa del triangolo sicurezza-fruizione-natura?
«Innanzitutto c’è da fare una distinzione tra rischio e pericolo. Il pericolo è oggettivo, incalcolabile e improvviso; il rischio è invece un concetto che nasce con la società moderna, a partire dal 700, con l’idea di poter calcolare la sua entità. Pensiamo ad esempio alle assicurazioni, è il cosiddetto rischio calcolato. In una dialettica di cui parlava già lo psicanalista Sigmund Freud, la sicurezza si contrappone alla libertà di fare quello che si vuole, senza un atteggiamento preventivo rispetto alle attività umane».

Come ci si districa tra questo dualismo sicurezza-libertà?
«Sono due posizioni divergenti, tra cui è necessario trovare punto di equilibrio. Perché una società troppo garantita, che previene sempre il pericolo, è una società immobile. E negli ultimi anni la nostra è sempre più tesa a garantire e governare l’incertezza».

Ma la natura non è incertezza di per sé?
«Certo, ma basta pensare a chi ha condannato i geologi che non hanno previsto il terremoto de L’Aquila. Questa è una società che non ammette che ci siano margini di imprevedibilità, anche a discapito della libertà. Ma quanto è lecito che un cittadino sia soggetto a uno Stato paternalista?».

Lo è nel caso di chi va in montagna?
«L’alpinismo è un’attività che prevede il rischio e il pericolo come parti integranti del suo statuto, anzi, li esalta. Da questo punto di vista l’alpinismo è una provocazione, uno scandalo: vien percepito come un caso di pochi esaltati che si mettono in pericolo».

Sembra un manifesto rivoluzionario. Anche le Alpi condividono con l’Etna un tentativo di opposizione da parte delle autorità?
Da qualche anno in Piemonte le leggi regionali vietano la scalata in caso di condizioni climatiche avverse, come le forti nevicate, e lo scii fuoripista, per la possibilità di provocare una valanga e fare male a qualcuno. Ma sono divieti poco applicabili, perché è difficile controllare. Nella storia dell’alpinismo, comunque, si presentano ciclicamente delle proposte di legge, magari all’indomani di grandi tragedie, ma non se n’è mai fatto niente.

Non si è mai riusciti a controllare, se non la natura, i suoi appassionati?
In Svizzera, negli anni 30, tentare di scalare la parete nord dell’Eiger era uno dei miti dell’alpinismo, che aveva già provocato diverse vittime. Gli alpinisti continuavano a scalare accanto ai cadaveri degli altri alpinisti morti. A un certo punto la legge cantonale decideva di vietare la scalata, punendola con alcuni giorni di prigione. Eppure i candidati continuarono ad arrampicarsi comunque, dicendo: «Che importa il divieto svizzero. Una volta in parete non ci spareranno mica addosso e, se dopo ci metteranno in prigione, ne approfitteremo per goderci alcuni giorni di ben meritato riposo!».

[Foto di Emilio Leone]

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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