Esame d’avvocato, la parola al presidente dell’Ordine  «Serve qualità, chi propone l’estero specula su giovani»

I risultati della prova scritta dell’esame di accesso alla professione forense sono alle porte. Il 27 giugno i quasi mille e duecento candidati che hanno partecipato al concorso sapranno se potranno passare alla verifica orale o se dovranno riprovare l’anno prossimo. Intanto a Catania società e singoli professionisti propongono di rivolgersi ad altri paesi comunitari come la Romania o la Spagna per evitare il passaggio, ritenuto da molti lungo e complesso, e abilitarsi all’estero. Per chiarire i contorni di questo scenario, MeridioNews ha intervistato Maurizio Magnano di San Lio, presidente dell’Ordine degli avvocati di Catania, che ha parlato delle modalità di correzione dei compiti e, in generale, delle problematiche legate all’accesso alla professione. Muovendo un duro attacco nei confronti di chi propone metodi alternativi alla normativa italiana. 

Presidente, cosa ne pensa di chi critica le modalità e le tempistiche dell’esame? Sono argomentazioni fondate?
«Per quanto riguarda i tempi i ragazzi non hanno torto. Sono molto lunghi e, tra un compito e l’altro passa un anno. Detto questo è anche vero che le commissioni devono porre la giusta attenzione agli elaborati. Sotto tutti i profili: per le tematiche svolte e le questioni giuridiche trattate. La correzione deve essere sempre attenta, per questo l’estendersi del tempo non è una inefficienza ma una necessità». 

Molti però rimangono senza poter fare nulla durante questo periodo di attesa. 
«Onestamente il non sapere cosa fare mi lascia un po’ perplesso. Chi vuole effettivamente abbracciare la nostra professione dovrebbe approfondire sia le materie che l’esperienza professionale, la quotidianità degli studi legali e del palazzo di Giustizia. Non è che i ragazzi restano a non fare nulla, perché possono sempre svolgere la pratica. Ancor di più perché quella necessaria all’accesso è stata portata a 18 mesi e non più 24. Non dimentichiamo anche la possibilità di andare all’estero e fare degli stage o altro tipo di formazione».

Come si svolgono le correzioni dei compiti? Esiste una commissione? 
«Non c’è una sola commissione, ma diverse nominate a livello distrettuale in base alle Corti di Appello. Ovviamente noi, a Catania, non correggiamo i nostri che, per esempio, quest’anno saranno corretti da Torino in base a quanto stabilito dal ministero della Giustizia. Dopo la correzione dei tre elaborati, sulla base dei risultati, c’è la prova orale che si basa in parte su quella scritta. Considerate che non è più il compito teorico di una volta, ma una prova pratica in cui i candidati devono preparare un atto giudiziario o, tra le altre cose, un parere. La prova orale poi si sposta a livello locale, ed è fatta dalla Corte di Appello. I commissari vedono il fascicolo con la domanda del praticante e, in base alla sua esperienza (penale, civile, lavoro o tributario) pongono le domande». 

Cosa pensa di chi va all’estero per potersi abilitare? 
«Qui entriamo in un campo molto delicato. Da un lato è vero che la Comunità europea ha imposto più volte al nostro legislatore di accettare queste forme alternative di accesso, dall’altro dobbiamo fare attenzione. Prima di tutto si deve distinguere tra i Paesi, c’è una differenza per esempio tra la Spagna e la Romania. A Bucarest pare ci sia una società che, equivocando sulla ragione sociale, cerca di equipararsi a quello che dovrebbe essere un consiglio nazionale forense rumeno e rilascia l’abilitazione in modo molto semplicistico. Una volta conseguito il titolo lì, poi si viene iscritti in Italia sulla base del nulla perché non c’è un percorso formativo. In Spagna invece il percorso è più serio. I candidati devono avere una laurea locale, si effettua una verifica dell’attività svolta e si deve fare il praticantato. Quindi è molto più vicino alla nostra modalità d’esame». 

A Catania nascono realtà che promuovono queste soluzioni e che forniscono consulenza. È un problema? 
«Queste attività sono sempre molto particolari perché si va a speculare sul giovane e non è giusto, lo dico con molta sincerità. Io capisco che le modalità sono molto difficili ma riflettiamo sulla realtà. Non è vero che una volta superato l’esame si ha la certezza di avere un lavoro sicuro. I nostri giovani dicono che la prova è difficoltosa e c’è chi ne approfitta, anche da un punto di vista economico. Io sono molto critico su questo, ma non è solo la mia posizione quanto piuttosto quella del Consiglio nazionale forense. Noi teniamo molto alla qualità della nostro Foro e al di là della retorica e ci siamo presi spesso belle soddisfazioni. Come nel caso dell’albo dei cassazionisti, dove la maggior parte dei giovani che si iscrive viene da Catania». 

Secondo lei è necessaria una riforma dell’esame e, in generale, un cambiamento nell’accesso alla professione forense? 
«Oggi si parla di scuole di formazione obbligatorie, di materie diverse e di nuove norme di accesso. Tuttavia il problema è che i numeri sono sempre molto alti e c’è carenza di concorsi pubblici. I nostri laureati di fatto si iscrivono tutti al registro dei praticanti, nelle riforme che si stanno pensando in questi anni però si punta ad avere un’avvocatura di qualità piuttosto che di quantità. Dovremmo evitare di far sì che la facoltà di Giurisprudenza e l’iscrizione all’albo degli avvocati siano scelte residuali, di comodo. In una città come Catania, in un contesto socioeconomico che conosciamo bene, il numero di avvocati iscritti ammonta a circa 5.400, a cui si sommano i praticanti. Insomma l’offerta supera senz’altro la domanda».

Mattia S. Gangi

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