Giornalismo, musica, web, eccole le parole chiave della recente fase della carriera di Ernesto Assante, firma rock di Repubblica, uno dei protagonisti della messa online del quotidiano romano e titolare del blog “Media Trek”. Step1 lo ha intervistato per l’ultima puntata dell’inchiesta su musica web.
Assante, il giornalismo musicale è ormai di casa nel web. Non c’è ritorno dall’era digitale?
Non c’è e non ci sarà ritorno perché è naturale che sia cosi, lo dico senza rimpianti. Il mondo si sposta sul web e quindi si sposta sul web anche la critica musicale. Ma soprattutto cambia la natura del nostro lavoro. A dir il vero non proprio del mio perché, essendo nato con la radio e di estrazione naturalmente multimediale, mi risulta naturale utilizzare il web. La differenza è che io scrivo di un disco e sotto c’è il pc con un mp3 o un video. Quindi, chi mi legge, immediatamente sente quello di cui io sto parlando e può giudicare se ha un senso. Poi, oltre tutto, può intervenire postandomi una riga sotto se ho scritto una fesseria o dandomi una notizia ulteriore. Molto spesso, infatti, alcuni lettori ne sanno più di noi essendo dei fan monomaniaci di un unico gruppo. Per cui è una dimensione, per me, meravigliosa, molto più diretta ed immediata.
…più immediata rispetto a quella di quotidiani e riviste cartacei
Beh, io e Gino Castaldo a Repubblica siamo convinti che la migliore critica musicale sia nata nei quotidiani, non perché la facciamo noi ma perché è dovuta intervenire immediatamente su cose che avvenivano in diretta, avendo un feedback coi lettori. Mentre in Italia sfortunatamente si è sviluppato non tanto la critica nelle riviste musicali quanto il “fanzinismo” cioè grandi appassionati che dicevano: “amo Springsteen e quindi mi va benissimo qualsiasi cosa faccia” oppure “so che numero di scarpe ha Baglioni”. Purtroppo gran parte dei giornali italiani negli anni ’90 sono stati questo tipo di realtà, poco approfondimento molto nozionismo. Per cui per noi dei quotidiani, per me, per Castaldo, il trasferimento sul web è stato quasi indolore. Facciamo lo stesso mestiere in un nuovo modo, con un meccanismo magari più diretto e non dico con meno analisi perché in realtà la disponibilità di spazio che ho sul web è infinitamente più ampio di quello che ho sul giornale. Se voglio scrivere 130 cartelle sugli Who che amo perdutamente, ho modo di farlo. Lo spazio per noi aumenta anche perché aumenta esponenzialmente anche la disponibilità di musica, per cui di critici c’è sempre più bisogno. Io oggi sento più dischi di chiunque altro. È naturale che vengano da me per evitare di sentirne altri e tanti e chiedermi “ok cosa vado a sentire domani?”, “cosa mi consigli?”, “cosa può essere interessante?”. Dunque apparentemente il ruolo dei critici oggi è in declino, i vecchi grandi giornali musicali vendono sempre meno copie e l’attenzione è rivolta quasi del tutto verso la Rete dove è molto più semplice trovare materiali, sentirli e non avere la necessità del filtro di un critico. In realtà però il ruolo dei critici è invece cresciuto e migliorato. Perché se in passato ci si rivolgeva alla critica solo per avere il consiglio del disco da comprare, e quindi con il poco approfondimento di fan e appassionati, adesso i fan e gli appassionati in Rete hanno abbondanti soddisfazioni per proprio conto e quindi il lavoro di quei pochi che amano ancora scrivere di musica e approfondire il discorso attorno alla musica si è fatto più ricco e appassionante proprio per merito della rete.
Però il suo blog “Media-Trek” le dà anche la possibilità si svagarsi un po’, schivando il linguaggio ufficiale che avrebbe scrivendo per il giornale…
Se posso ridurre tutto in una battuta: io ho trasformato una passione in un lavoro. La mia passione è la musica da quando ero piccolino, anzi la mia vera passione è sempre stata scrivere di musica. Questa orribile fesseria del critico musicale fallito…ce ne saranno pure, ma io trovo che scrivere di rock sia una delle cose più appaganti che ci siano nell’universo. Per me ovviamente. Di conseguenza il blog ha un punto di vantaggio in più: mi viene in mente una cosa, tre secondi dopo l’ho scritta. Entri in un rapporto diretto con altri appassionati, condividi non solo la critica, ma anche la passione. Nel mio blog posso permettermi di essere fan mentre sul giornale me ne son ben guardato in trent’anni di professione. Sul blog posso scrivere che per me Pete Townshend è in grado di sostituire la figura paterna, che è una cosa che sul giornale non scriverei mai.
Una svolta, quindi, per la professione giornalistica. Si sente, in qualche modo, un privilegiato ad aver vissuto il prima e il dopo?
Ho iniziato a fare giornalismo quando si lavorava con la macchina da scrivere, gli appunti si prendevano con carta e penna e con il registratore a bobine. Poi sono passato attraverso una fase multimediale gigantesca che è stato l’avvento della radio, e adesso sono tornato al giornalismo scritto, ma sul web. Quindi ho percorso almeno tre fasi e in questi trent’anni la mia professione è cambiata e si è totalmente rivoluzionata. Secondo me in meglio nel senso che solo i giornalisti idioti, sfortunatamente la maggioranza, non comprendono che le tecnologie che abbiamo a disposizione oggi migliorano la possibilità del nostro lavoro del 300%. Prendi il Word Processing, alle volte non ragioniamo sul nome delle cose. Word processing non vuol dire scrivere, significa rielaborare parole. Chi usa il computer come una macchina da scrivere è come se guidasse una Ferrari facendola andare come una Cinquecento. Insomma sono strumenti nuovi che necessitano di linguaggi nuovi e io trovo che questo sia meraviglioso. Come è stato meraviglioso, per me, passare dalla macchina da scrivere al computer, parlare dietro un mixer, lavorare alla TV, avere in mano strumenti completamente diversi con unico sempre identico scopo: condividere il mio costante, perenne, ascolto di musica. Mi sento un privilegiato nella maniera più assoluta, ma se devo pensare al passato avrei preferito vivere negli anni ’60 per andare a Woodstock oppure essere coetaneo di Gutemberg e assistere all’esplosione del libro. Cioè ogni periodo ha una fase eroica e leggendaria. Diciamo che i tempi si accorciano talmente tanto che io ho vissuto almeno tre fasi eroiche del giornalismo musicale, che non è male.
Certo vent’anni fa non avrebbe mai pensato di seguire l’intero Festival di Sanremo in diretta sul suo blog…
No assolutamente no! Ma trovo che questo sia appunto il bello del mestiere: non è mai uguale.
Internet ha portato anche alla trasformazione delle abitudini musicali. Il downloading sta mandando al tappeto le major…
Beh, nel downloading di buono c’è la soddisfazione immediata: sento una canzone, mi piace e me la scarico in un minuto. È il sogno di ogni appassionato di musica. Voglio l’inno americano suonato da Jimi Hendrix? Con un solo dito e un click, un minuto dopo ce l’ho. E quindi meglio di così si muore. Ma il lato negativo è la mancanza dell’opera, la mancanza della possibilità che io questa musica la possa conservare in un supporto che meriti di essere conservato, ovvero il vecchio disco in vinile. Io trovo che la perfezione del mercato in questo momento dovrebbe avere il download, qualche cd da portare in macchina o in giro e poi l’ottimo vinile che va nello scaffale e che passerò in eredità a mia figlia e ai miei nipoti.
Sentiremo la mancanza delle case discografiche?
Non credo. Hanno fatto così male alla musica che se scompaiono nessuno piangerà, tanto la musica non svanisce. Cent’anni fa non c’erano e circolava comunque del grande jazz o dell’ottima musica classica. Forse cambierà il modo in cui i musicisti faranno denaro, ma il motivo per cui l’artista fa musica dovrebbe essere quello della creatività. La musica c’è sempre stata e sempre ci sarà, forse ci saranno meno miliardari…
E della chiusura di molti negozi di dischi che ne pensa?
Sembrerà assurdo ma io credo ci debba essere un’evoluzione verso il vinile. Il problema è che il supporto non può essere distinto dall’opera quando c’è bisogno. Mentre Rihanna io la prendo, la consumo, la uso e non ho alcun bisogno di conservarla, il disco dei Coldplay che amo particolarmente o la rarità di Dylan li voglio nello scaffale, va conservata. Perché se nulla si conserva si perde. Allora temo che la volatilità della musica odierna – ma attenzione non voluta dall’utente, ma dalle case discografiche con la diffusione de compact disc – sia un difetto imperdonabile e pericoloso. Io ho un e-book reader, dentro ci ho caricato circa 180 libri che mi fa molto comodo portarmeli dietro. È bellissimo, perché ho dentro tutto quello che mi serve, ma a casa ho i libri. Stessa cosa dovrebbe essere con la musica. Io posso avere un I-pod con dentro diecimila brani, ma a casa ho i dischi, non cd, ma vinili. Il compact disc è un oggetto portatile, molto comodo ma che non ha valore. Il vinile è incopiabile, è unico.
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