«L’università di Catania ha bisogno di navigare in acque limpide. Lo dico da subito: se vogliamo avviare un cammino virtuoso, dobbiamo imboccare la direzione giusta. L’ateneo, in questo momento, deve cercare innanzitutto il suo benessere morale». Vittorio Calabrese parla di etica. È da quella, secondo lui, che bisogna ripartire per rilanciare l’accademia etnea, in senso lato, dopo lo scandalo Università bandita.
Dopo avere sfidato, senza successo, l’ex rettore Giacomo Pignataro nel lontano 2013, il professore – ordinario di Biochimica clinica – ritenta la sorte verso Palazzo centrale, con la solita enfasi che lo contraddistingue. A contendergli il posto da rettore in queste consultazioni elettorali estive (si vota al primo turno il 23 agosto) ci sono Agatino Cariola, Francesco Priolo, Roberto Purrello e Salvatore Barbagallo. «La società ci guarda con un occhio di profonda severità – dice Calabrese – Ma è bene non cedere ai giustizialismi».
Cosa intende?
«Di fronte all’oscurità, io non voglio maledire le tenebre. Io voglio accendere una luce. Non spetta a noi dare risposte, sarà la magistratura, mamma e non matrigna, a dare quelle giuste».
Per questo genere di risposte, vi si accusa di non avere preso le distanze dal presunto sistema scoperchiato dalla procura di Catania.
«Bisogna capire cosa significa “prendere le distanze” dal sistema. Io penso innanzitutto che bisogna comprendere le cause di ciò che è accaduto».
Si è fatto un’idea su quali possano essere le cause?
«Non ci possono volere un paio d’ore. Deve essere una riflessione profonda e attenta. Anche perché se minimizziamo il problema non curiamo il malato. Penso, comunque, che sia la cultura dentro di noi che deve cambiare, sul piano etico, gestionale e amministrativo. Le scorciatoie portano sempre sulla strada sbagliata ed è questo che va compreso. Io porto il mio esempio a testimonianza di ciò che dico».
Si riferisce alla ricerca a cui più volte ha accennato?
«Esatto. Ho passato una intera vita di dedizione alla scienza e penso che la ricerca ad altissimo livello sia il motore del mondo. Da quella una università deve ripartire. L’università di Catania ha una storia secolare di grande prestigio e non possiamo permettere che finisca con noi. L’università non è nostra: è di tutta la società. Gli studenti, adesso, ci si sentono molto a disagio, ma dobbiamo riportarli sulla strada della fiducia. Anche trovando metodi trasparenti di mostrare il nostro operato».
Come si fa una vera operazione trasparenza nell’ateneo di Catania?
«Guardi, il mondo della ricerca internazionale è fatto di verifiche su più livelli e criteri di valutazione misurabili. Basta mutuare quei metodi. I miei studenti li imparano da subito: tutti, compatibilmente con le loro vicende personali, vanno a fare almeno un anno all’estero, per essere in linea con quello che accade altrove. Pensi agli USA».
Ma negli USA non ci sono concorsi pubblici come li intendiamo noi in Italia, o mi sbaglio?
«Negli USA non ci sono problemi di ristrettezze economiche, se questo lei lo mette su un piano competitivo vedrà che non restano spazi per famiglia e amici. La competitività aiuta a gestire il merito. Se i fondi ci sono, ma se li aggiudica solo chi fa il lavoro migliore, allora vedrà che tutti punteranno all’eccellenza. La legge Gelmini è stata fatta con lo scopo, certamente contemporaneo, di aziendalizzare le università. Ma se io ho una Ferrari, mi serve la benzina. Se ho un’università che deve correre, mi servono i fondi per farla competere con le altre nel resto del mondo. La mancanza di fondi crea le storture, il poco da dividere lascia spazio ai familismi. Sono stato chiaro?».
Chiarissimo.
«Chiarissimo è la definizione che mi spetta da professore universitario (ride, ndr)».
Questione statuto. Cambiarlo ancora? Se sì, come?
«Bisogna mettere mano allo statuto. Io voglio migliorare l’università e per farlo ho bisogno di partire dalle basi. Sono motivato a farlo. E la motivazione, si sa, è quello che ti permette di vedere la vita a colori».
Oltre allo statuto, quali sono le altre basi?
«Il personale. L’università ha personale demotivato e messo in un angolo. Nonostante una base salariale bassa, lavorano tutti con grande senso di appartenenza. Invece bisogna aumentare la base salariale e dare a tutti di più. Per tornare alla metafora automobilistica: se il team non cambia le ruote in tempo, il pilota di Formula 1 perde la corsa. Così è con il personale. Che deve essere remunerato non solo sulla base dell’anzianità, ma anche per la qualità del lavoro che svolge. Se vogliamo accedere a finanziamenti anche dall’estero, tutti devono essere adeguatamente motivati».
Vuole aumentare gli stipendi?
«È necessario. E questo io lo farò non nei miei primi cento giorni, ma il secondo giorno del mio mandato. A partire dal personale tecnico-amministrativo, che è il tessuto connettivo dell’ateneo. Senza quello, il cuore non batte».
Una promessa impegnativa da fare.
«Di più. Chi ha mai pensato a fare gli asili? Ci sono genitori nel corpo accademico, tra il personale tecnico-amministrativo. Bisogna rendere loro la vita più facile. Gli ospedali dismessi devono diventare campus all’americana, ci vogliono pochissimi soldi rispetto al grande risultato che si ottiene».
Professore, ma con chi le farà tutte queste cose? Chi saranno i suoi uomini nei vari dipartimenti?
«Non è il momento di parlare dei delegati. È tempo di ascoltare, non di fare atti di padronanza».
Se il 23 agosto, alla prima votazione, lei risultasse indietro, si ritirerebbe? Se sì, per appoggiare chi?
«Non mi ritirerei mai. Io non accetto mezze misure, e poi il 23 è un bel numero, mi piace».
Quali erano i suoi rapporti con gli altri candidati prima di questa corsa per il rettorato?
«Siamo amici. Ma io ho sempre dedicato il mio amore e il mio tempo alla ricerca».
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