Due chiacchiere su Le maleparole, romanzo di Salvo Scibilia

Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Salvo Scibilia! E come sempre, al momento di iniziare un libro nuovo, provo a seguire i consigli che Italo Calvino forniva a un suo immaginario lettore: “Prendi la posizione piú comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio…” (Se una notte d’inverno un viaggiatore). Ma non riesco a trovare la posizione. Non è così comodo se conosci l’autore e se ci lavori assieme. Cosa può avere spinto un pubblicitario di successo, e per di più docente universitario, a cimentarsi nella scrittura di un romanzo? La recensione no, vi prego. Si impone un’intervista.
 
Ogni romanzo, specialmente il primo, contiene in genere una dose più o meno alta di autobiografismo…
Direi soprattutto di “auto”: autocompiacimento, autoironia, autocritica… Tante cose inevitabilmente egoriferite. Forse ciò che mi ha spinto a scrivere è stato il cumulo di lavoro vincolato. Ventisei anni a Milano, nel carosello delle agenzie internazionali di pubblicità: scadenze, tensioni, pressioni e paletti di ogni genere. Anche soddisfazioni, certo, ma sai che stress: inventare, farsi venire delle idee a comando, dalla mattina alla sera; creatività mercenaria e spunti più felici che si alternano senza sosta. Poi succede come quando ci si innamora. E se scrivessi qualcosa per conto mio? E allora ti vengono dei piccoli brividi e sei contento, eccitato.
 
Infatti nelle maleparole si sente questa ventata di erotismo. Si tratta però di una sensualità implicita, quasi inespressa, più nelle intenzioni che nella realtà.
L’erotismo, mi diceva Samperi, indimenticato regista di “ Grazie zia”, è luce: la contiguità di ombra e penombra che cade sui personaggi e li svela accarezzandoli con il ritmo e il respiro. Io credo molto nella tensione, nell’elettricità che corre tra i personaggi;  le pulsioni sì ma soprattutto i preamboli  capaci di esprimerle. E’ una questione di dosaggio dell’allusione  all’interno della scena.
 
Siamo davvero in piena autobiografia!
Figurati, no, semmai guardo a modelli esterni ai quali ispirarmi: se tu non fossi qui davanti a me, ti citerei…
 
Mi avevi promesso un’intervista “seria”. Permettimi di riprendere il bandolo. Perché un romanzo così intensamente siciliano? La Sicilia è stata e continua ad essere un topos letterario (la Sicilia come metafora). Semmai la novità degli ultimi anni è che il topos rischia di trasformarsi in un genere. Come si fa a scrivere di Sicilia dopo Camilleri?
Camilleri ha prodotto nell’italiano quello che l’industria più seria ha prodotto nell’alimentazione per la prima infanzia inventando l’omogeneizzato. Ha reso un intero corpus di termini, immagini e caratteri fortemente siciliani assimilabile, digeribile, godibile, didascalicamente spettacolare. Operazione meritoria. La Sicilia resta, per quanto mi riguarda, un ingrediente esistenziale indispensabile, ma non mi serve per condire storie, semmai per rendere possibile la loro esistenza. Bufalino parlava di Cento Sicilie. La Sicilia, come il tè, è capace di alimentare in discorso infinito.
 
Blanchot: l’infinito intrattenimento…
Appunto.
 
Il romanzo è ambientato nella Catania di fine anni Cinquanta, nell’imminenza di una campagna elettorale; con evidente anacronismo, visto che tu non l’hai vissuta in prima persona. Vuoi dire che la politica siciliana si muove in uno scenario immutabile? Che ieri e oggi è sempre la stessa storia?
Storicamente, è mai accaduto che i bambini smettessero di dire bugie? Il mestiere di politico è per sempre, come i diamanti di una certa marca. Meglio non dirglielo a Max Weber.
 
Non glielo dirò. Resta il fatto che la tua scrittura è molto controllata e meditata. Quanto hai pescato dal tuo bagaglio di pubblicitario, o “pubblicitoso”, come dici tu?
Ferdinando Astuti, il giovane protagonista, fa il ghost-writer, parente stretto del copy-writer, il mestiere che faccio da sempre. Ho preso il ritmo, un certo senso dello spiazzamento, il senso della sintesi e, penso, anche gli stacchi e gli attacchi tipici della sceneggiatura.
 
Sei anche un docente. Una delle battute più feroci contro la nostra categoria è che “quando uno non sa fare una cosa, la insegna”. Poiché tu hai dimostrato di saperla fare, la pubblicità, come mai hai deciso di insegnarla?
Perché l’attrezzatura concettuale e tecnica del pubblicitario esorbita dalle ristrettezze del mestiere e diventa governance della comunicazione. Retorica, lettura della realtà, ricerca creativa, percezione del target, sociologia dei consumi atterrano su un terreno comune. E’ questo il mio sforzo, ma anche il divertimento, come docente.

Luciano Granozzi

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