Passione e smarrimento. Consapevolezza e dubbi. Districare il nodo attorno ad una vicenda complessa come quella del laboratorio dei veleni all’interno l’ex facoltà di Farmacia è complesso. La giustizia, come la scienza, ha bisogno di verità sulle quali poggiare le proprie basi. E Con il fiato sospeso, il film ispirato alle vicende legate all’edificio 2 della cittadella, di risposte non ne dà. Il mediometraggio – 35 minuti – è in programmazione con un ottimo riscontro di vendite al cinema King, dove ieri sera la regista Costanza Quatriglio lo ha presentato al pubblico etneo. Una sala piena, tanti visi conosciuti, dal primo cittadino Enzo Bianco a qualche docente dell’Ateneo di Catania, parte offesa e accusata nel procedimento per disastro ambientale e discarica non autorizzata. Ma, soprattutto, ad essere presenti sono persone meno note ai più. Genitori, figli, amici di quelle persone incarnate da Stella, la protagonista del film, sintesi di tutti gli incontri fatti dalla regista nel lungo periodo di gestazione della sua opera.
Ai titoli di coda, quando risuonano ancora nelle orecchie le note di Paolo Buonvino, il pubblico rimane attonito. La sala del King ieri si è mostrata turbata da quanto il film della regista palermitana ha portato a galla. Non è il momento delle parole, arduo imbastire un dibattito. Con il fiato sospeso, nomen omen, tiene sul filo lo spettatore, fa sorgere in lui mille domande, le stesse che tormentano Stella, interpretata da Alba Rohrwacher. «Tu per me sei come una figlia», le dice un professore. Può un padre tradire la propria carne? Nemmeno questo dubbio atroce viene svelato, non è compito del cinema, Costanza Quatriglio in questo è chiara. «Ho scelto uno strumento che potesse far porre delle domande», spiega. Ben diversa è la realtà rappresentata dal padre di Emanuele Patanè, il giovane dottorando morto per un tumore ai polmoni. E allora le immagini delle provette sono sostituite da quelle di letti d’ospedale, la passione per la ricerca viene sopraffatta dalla rabbia scaricata contro una macchinetta del caffè.
«La verità…». Queste sono le prime parole del film, Costanza Quatriglio lo sottolinea. Ma il suo non è un atto di accusa a questa Università, quella catanese è solo una delle poche storie note di un Paese che tradisce i figli. «Il film mette un dubbio gigantesco su quanto accaduto», afferma la regista. L’edificio 2, inquadrato come se fosse un luogo evanescente, può trovarsi alla cittadella etnea come altrove. Ad essere reali sono i gesti compiuti da Stella e dalle comparse (giovani studenti ripresi dentro un vero laboratorio universitario), gli stessi ripetuti mille volte da Emanuele, Agata, Marianna e tutti quei ragazzi che avevano una sola passione: la ricerca, ma che non hanno potuto realizzarlo appieno. Sono i dettagli – dai camici usurati dagli acidi alla mancanza di guanti, passando per le cappe di aspirazione non funzionanti e lo sversamento nei lavandini di sostanze tossiche – a svelare la grande opera di documentazione. E poi ci sono le parole del memoriale di Emanuele, quel documento cosi «potente», come lo descrive Quatriglio, che risuona chiaro e limpido dopo dieci anni dalla sua stesura e scuote ancora le coscienze di chi apre il cuore e lo accoglie.
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