Dopo la sentenza Bruno Contrada parla da incensurato «Io accusato da criminali, processo costruito sul nulla»

«Ci sono animali che sbranano e altri che si contendono i resti del corpo sanguinolento: avvoltoi, corvi, iene. E poi si avventano anche gli insetti, le formiche rosse, che si accontentano di pezzettini. Questa non è soltanto la storia di Bruno Contrada, ma è la storia che si ripete nell’umanità». Da stamattina Bruno Contrada è di nuovo un uomo incensurato. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dagli avvocati Stefano Giordano e Vittorio Manes, legali dell’ex dirigente generale della polizia di Stato, annullando di fatto la condanna a dieci anni ricevuta e già scontata. E l’anziano ex funzionario, che a settembre compirà 86 anni, non le manda a dire ai suoi accusatori, anche se non vuole puntare il dito contro nessuno: «Non provo odio – dice – nutro un senso di disprezzo, inteso come mancanza di apprezzamento. Innocuo, senza ulteriori conseguenze. Se dovessi incontrarli mi limiterei a cambiare marciapiede».

«Una sentenza senza precedenti». Ripete spesso Giordano. «È la prima volta che sulla base di una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo un’intera sentenza di condanna viene revocata. Un chiaro segnale che significa che le sentenze della Corte europea si applicano anche quando sono dure. Dal 1994 in poi si può parlare effettivamente di una giurisprudenza chiara sul concorso esterno in associazione mafiosa, ma prima di quell’anno non era possibile e i fatti contestati a Contrada sono tutti antecedenti a quella data. Così si è pronunciata la Suprema corte. Ora sappiamo che quell’accertamento non poteva essere fatto, quella condanna non doveva essere pronunciata. Non è un’assoluzione, ma certamente equivale a un’assoluzione. Tutti gli effetti penali vengono a cessare e Bruno Contrada è di nuovo una persona incensurata». 

«Non ho mai commesso nessun reato – replica Contrada – neanche una violazione al codice della strada. Se anche una sola delle accuse che mi sono state mosse contro fosse vera, lo dico da sempre, non avrei dovuto scontare dieci anni, ma essere fucilato alle spalle per alto tradimento». Invece, secondo l’ex 007: «Sono tutte o invenzioni di efferati criminali pagati dallo Stato, capaci anche di passare sul cadavere della madre per avere la libertà, oppure le accuse gli sono state suggerite da uomini che non voglio qualificare». Contrada non vuole neanche nominare Antonino Ingroia, che sosteneva l’accusa nel processo a suo carico, ma si limita a lanciare una provocazione: «Tutto l’incartamento del mio procedimento dovrebbe essere raccolto in un volume da adottare nelle facoltà di giurisprudenza dal titolo: “Come si costruisce un processo sul niente”». 

Del carcere, lui che continua imperterrito a definirsi un uomo delle istituzioni, ricorda il momento più difficile, quello dell’ambientamento: «Quando ho sentito alle mie spalle il rumore della chiave nella serratura della cancellata che si chiudeva e mi escludeva dal resto del mondo». E la mancanza della libertà, una pena «seconda solo alla privazione della vita stessa. Una sofferenza – aggiunge – che non si può capire se non si vive in prima persona e che non augurerei al mio più acerrimo nemico». Racconta di quando, il 24 dicembre del 1992, gli uomini della Dia sono andati a prenderlo per trarlo in arresto. 

La stessa Dia che forse Contrada avrebbe dovuto guidare. «Nel 1992 ero all’apice della mia carriera in polizia. A febbraio del 1991 ero stato nominato dirigente generale, il grado più alto, dopo una carriera di circa 35 anni. Ero stato applicato ai servizi di informazione e sicurezza, il Sisde, a Roma e dirigevo tutti i centri della Capitale e del Lazio. Mi occupavo anche per incarico personale da parte del direttore generale del servizio, della creazione di nuclei speciali investigativi per la lotta contro il crimine organizzato. Nel frattempo si costituiva la Dia e avevo saputo che l’allora capo della polizia Vincenzo Parisi pensava al mio nome per sostituire nell’incarico di dirigente il generale dei carabinieri Taormina».

Gabriele Ruggieri

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