Don Giovanni, una parabola della vita

Il “Don Giovanni ossia il Dissoluto punito” è un’opera lirica composta da Wolfgang Amadeus Mozart nel 1787 su libretto di Lorenzo Da Ponte. L’argomento di cui tratta era stato trasmesso verbalmente e arricchito di continuo dalla fantasia popolare già da prima del XVII secolo e riversato successivamente in letteratura. Primo esempio, nel 1630, quello di Tirso De Molina con il “Seduttore di Siviglia e il Convitato di Pietra”, che è stato l’inizio di una lunga serie di opere letterarie su questa figura, anche perché essa si presta a riflessioni sulla capacità dell’uomo di esaltare o rovinare se stesso e gli altri in ogni modo ad esso possibile. Quasi dello stesso periodo è, infatti, il “Don Giovanni o il Convitato di pietra” di Molière. D’altronde, anche Carlo Goldoni si è cimentato nella rappresentazione del mito di Don Giovanni. Vi sono state poi altre versioni, fino al libretto di Giovanni Bertati “Don Juan Tenorio ossia il Convitato di pietra” , dal quale Lorenzo Da Ponte ha tratto l’impalcatura del proprio libretto.
Lorenzo Da Ponte ha comunque avuto come ispirazione nel disegno dei tratti di Don Giovanni la figura di Giacomo Casanova, suo buon amico, che venne peraltro invitato alla prima dell’opera ad ammirare se stesso e ciò che egli rappresentava, per sempre immortalato dalla musica. Già… ciò che egli rappresentava. Egli era il simbolo del gusto di saper vivere e della spregiudicatezza, ma anche della cultura e del raffinato edonismo. Vedremo che Mozart, inevitabilmente per cultura, educazione e sensibilità, vivrà in maniera intensa la punizione di Don Giovanni-(Casanova?) peccatore, ma non potrà fare a meno di ammirarne la coerenza nelle lucida, tremenda scelta finale, autolesionistica sì, ma anche per questo definitivamente consacrata all’immortalità nel ricordo dei posteri.
Musicalmente la struttura dell’opera è complessa, come quella di tutte le altre composizioni del genio salisburghese, comunque preferiamo non addentraci nella sua analisi, essendo questa una valutazione da lasciare ai musicologi; ci limiteremo semplicemente, tra le tante possibilità, anche solo a notare le coloriture della sua partitura. Sembra quasi di sentire con esse la voce stessa di Mozart che partecipa allo stato d’animo dei personaggi, che ne commenta le frasi e i comportamenti; uno per tutti, valga l’esempio de “l’aria del catalogo” di Leporello e l’intercalare degli archi ad ogni cifra dell’elenco delle conquiste di Don Giovanni. Sicuramente in quel frangente Mozart approvava e strizzava l’occhio al Protagonista. D’altronde sia lui che Lorenzo Da Ponte non erano da meno della loro vivace creatura.
Il ruolo che quindi nell’Opera Lirica verrà preso negli anni successivi dal coro, trasmettere cioè all’ascoltatore le riflessioni del musicista, qui viene assolto dalla musica. Potrebbe sembrare che l’ultima scena del secondo atto , il sestetto finale: “Questo è il fin di chi fa mal…” sia la riflessione ultima di Mozart sulla iniquità di Don Giovanni, ma qui la musica, per quanto sempre sublime, non è del tutto efficace, quindi non sembra che parli per il proprio creatore. L’ultima, finale, riflessione di Mozart , sia morale che musicale, sul destino di Don Giovanni, è fatta nella scena del Commendatore, in cui l’atmosfera sulfurea ed eterna dell’Inferno aleggia continuamente, oggettiva e asfissiante: dalla pietosa ma severa richiesta di pentimento del Defunto al rifiuto protervo ed irriverente del Peccatore.
Lì, Mozart non strizza più l’occhio né al protagonista né a se stesso, perché sa che tutto ciò che si è fatto alla propria persona o agli altri verrà pesato e ripagato con misura colma, pressata e traboccante. Egli sa che questa è l’ultima scelta di fronte a cui tutti, e lui stesso, per adesso gaudente, saranno posti.
A proposito della parte finale dell’opera, la storia della musica ci ricorda come ne esistano due versioni: quella della rappresentazione di Praga e quella della rappresentazione di Vienna. In quest’ultima, la scena del sestetto è stata tagliata. Dovendo infatti rappresentare l’opera davanti alla nobiltà ricca, prepotente ed egoista della Capitale dell’Impero, non era conveniente ricordarle come anch’essa fosse sottoposta al giudizio di un’Autorità Superiore. La nobilità, Don Giovanni-Casanova, si riteneva al di sopra della legge valida per la gente comune. In sostanza, la classe nobiliare poteva fare sempre tutto senza essere mai punita (come certi professionisti dell’antimafia…).
D’altronde, l’effetto catartico ed ammonitorio della musica della scena precedente era comunque sempre presente, lì, per tutti, poveri e ricchi, senza che nessuno, nella profondità della propria coscienza vi si potesse sottrarre.
Nell’ultimo mese abbiamo assistito a due edizioni di questa opera, entrambe emozionanti nella loro diversa interpretazione registica e musicale (si è trattato di due registrazioni). La prima, in ordine di tempo, è stata la registrazione dell’edizione del 1987, rappresentata per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione di Riccardo Muti e per la regia di Giorgio Strehler. Unico commento: guardatela.
Potremmo descrivervi l’interpretazione magistrale del Maestro Muti , la perfetta ed omnicomprensiva regia di Giorgio Strehler, i magnifici costumi e le eleganti scenografie, i grandi interpreti, uno per tutti Sir Thomas Allen, ammaliante e spregiudicato Don Giovanni. Ma tutto questo si può concentrare anche solo nella visione del celebre duetto “Là ci darem la mano…”, delicato e rifinito come una porcellana del Settecento, che bisogna guardare ed ascoltare centellinandone ogni singola immagine e frase musicale.
Comunque… ogni riflessione è superflua riguardo ad un’edizione divenuta una pietra miliare.
La seconda edizione è stata quella del 2011, mandata in scena giusto un mese fa, sempre per l’inaugurazione della stagione del Teatro alla Scala, sotto la direzione di Daniel Barenboim e la regia di Robert Carsen. Le scene erano scarne ma incisive, i costumi declinati in chiave moderna come l’interpretazione dei personaggi. Segnato il tutto dalle contaminazioni proprie delle regie attuali, da letture in chiave non solo più moderna, ma anzi avulse da ogni temporalità. Ma la rilettura, in questo caso, è stata tanto più apprezzabile quanto più perché intelligente e misurata.
Vi si è visto un Don Giovanni cattivo in ogni modo in cui un uomo lo possa essere. Una Donna Anna che, quasi sedotta, nonostante tutto, dal protagonista, sembrava rimanerne innamorata e per questo incapace di tornare al proprio amore per Don Ottavio. Una Zerlina, giovane donna, libera nelle proprie scelte e pronta a darsi a Don Giovanni. Il tutto in una atmosfera di opprimente e ossessiva sensualità.
Ma la rilettura più interessante è stata quella dell’ultima scena, in cui il regista, alla fine del sestetto conclusivo ed assolutorio, fa ricomparire Don Giovanni a campeggiare, simbolo di una bieca amoralità che domina in questo mondo la vita degli onesti, dei buoni, dei subordinati sentimentalmente, culturalmente e socialmente. Il regista ha sottolineato così come quest’opera sia una parabola della vita: un giorno tutti i Don Giovanni dovranno rendere conto del male fatto a sé ed agli altri, che ci credano o no, ma in questo mondo sembrano sempre trionfare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Maddalena Albanese

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