Era settembre quando mi portarono a casa. L’afa estiva lasciava il posto alla fresca brezza autunnale, la città tornava a riempirsi di suoni e colori e gli echi di serate in spiaggia in compagnia di una chitarra e di un falò affollavano i ricordi dei ragazzi, tornati, malinconici, alla vita di tutti i giorni.
Ero tra le braccia di mia madre quando arrivai a casa. Ancora non conoscevo il suo volto, non sapevo quale fosse il colore dei suoi occhi, quale fosse il magnifico sorriso che mi avrebbe rasserenato nelle notti più buie, perché ancora non riuscivo a vedere, i miei grandi occhi nocciola erano ancora troppo deboli. Nonostante questo, già allora sapevo chi era. Vi chiederete come facevo a sapere che fosse mia madre. “Te lo avranno raccontato”, direte. “Avrai domandato sicuramente ai tuoi genitori, non puoi ricordartelo”, insisterete. Mi dispiace dirvi che vi sbagliate. Sapevo esattamente chi era perché attraverso la candida lana del suo pullover riuscivo a sentire il battito del suo cuore: un suono caldo, piacevole, armonioso, che mi trasmetteva sicurezza, amore, pace. Quando ho avuto paura, quando ero preoccupato, quando avevo bisogno di braccia calde che mi facessero sentire vivo, lei era lì. Ricordo quella volta in cui assistetti al mio primo temporale. La pioggia che batteva sui vetri, i fulmini che si stagliavano all’orizzonte e illuminavano ogni cosa, creando ombre sinistre, i tuoni che rombavano e facevano tremare i vetri, il vento che fischiava e ululava, voce possente di un mostro ignoto. Ne fui terrorizzato. Corsi a nascondermi sotto il tavolo in cucina, come facevo ogni volta che combinavo qualche pasticcio. Quel tavolo era come una barriera, una protezione contro il resto del mondo, un posto reso magico dalla mia fantasia, invisibile ai grandi. Sentivo mia madre chiamarmi a gran voce ma avevo troppa paura per lasciare il mio porto sicuro. Mi trovò subito. Sono stato sempre un libro aperto per lei, credo che nei miei occhi riuscisse a leggere la mia anima. “Posso entrare?” mi chiese gentilmente. Allora resi visibile il mio mondo e mi gettai su di lei. Lei mi prese tra le braccia e si sedette sotto il tavolo, ospite segreto della mia terra nascosta, stringendomi forte e sussurrandomi parole dolcissime, mentre il suo e il mio cuore, finalmente sereno, battevano all’unisono.
Da piccoli, ogni giorno è una nuova scoperta: ogni colore, ogni forma, ogni odore, ogni suono ci travolge e ci trascina in un vortice di sensazioni ed emozioni mai provate prima, che ci stupiscono e ci spaventano, mentre lentamente il mondo appare intorno a noi, dandoci il benvenuto.
Quando i miei occhi si aprirono e le ombre e i contorni sfumati che mi circondavano cominciavano ad apparire chiari e netti, la mia casa era il mio mondo. Abitavamo in una graziosa villetta a due piani con un magnifico giardino sul retro. In pochi mesi avevo esplorato ogni angolo di quella casa, il sotto tavolo della cucina era diventato il mio posto segreto, quasi un sancta sanctorum, e il giardino, che appariva immenso ai miei piccoli occhi, era il mio parco giochi. Non stavo mai fermo un attimo e i miei genitori dovevano correre per starmi dietro, ma quando lo facevano, sotto le loro smorfie di rabbia riuscivo a scorgere una sottile aria di divertimento, rendendomi ancora più euforico e sprizzante. Il mio gioco preferito era la palla: che partite abbiamo disputato io e mio padre in giardino! Il mio vecchio si divertiva a commentare ogni azione quasi fosse un telecronista.
“Johnson si prepara al lancio, si posiziona…e parte il siluro!”, mentre io la prendevo al volo, rotolandomi nel fango quando cadevo giù, quando intanto gli ultimi raggi di sole baciavano i rami degli alberi e l’odore inebriante della cena ci invitava a rientrare. Eravamo la famiglia più felice del mondo. Passavano i mesi, le gelide cime innevate dei monti e il cupo grigiore dell’inverno lasciava lentamente il posto ad un’esplosione di colori e di odori, segno di una natura assopita che, sbadigliando, si risveglia. E intanto io crescevo. Ero diventato abbastanza grande da riuscire appena raggiungere la scatola dei biscotti che si trovava sul ripiano in cucina, scappando, dopo il misfatto, inseguito dalle urla di rimprovero di mia madre. Ma in quella primavera non fu soltanto la natura a risvegliarsi. La mia casa non mi bastava più. Il mondo esterno aveva iniziato ad esercitare una forte attrazione su di me. Dalle porte a vetri della veranda amavo guardare i bambini che giocavano tra di loro, sentivo le loro risate, osservavo le loro espressioni di giubilo; attraverso quel freddo schermo riuscivo quasi a percepire la gioia che stampava sorrisi sui loro visi sudati e sporchi di polvere, ma felici. Emozioni che non avevo mai avuto il privilegio di provare. I miei genitori infatti non mi permettevano di uscire da solo, e tanto meno di stare con i bambini del quartiere, poiché mi ripetevano che sarebbe stato pericoloso. Io non riuscivo a capirli. Perché non potevo uscire da solo da casa? Perché mai giocare con dei bambini poteva essere così tanto pericoloso? Perché mai non mi lasciavano provare quella felicità che leggevo negli occhi di quei piccoli monelli? Pensavo come tutto questo fosse ingiusto, ma mi rassegnai alla loro decisione, nonostante il desiderio di stare insieme agli altri, di poter vedere nei miei occhi quella stessa luce che illuminava i volti di quei bambini rimanesse addormentato dentro di me, sicuro che prima o poi sarebbe tornato più forte di prima. In un insolito piovoso martedì di fine aprile accadde l’inevitabile.
Ero solo a casa, i miei erano andati al supermercato, e io come al solito ero in veranda a guardare il mondo. La pioggia batteva costante sui vetri, in un ritmo quasi ipnotizzante. Sulla strada un bambino con un impermeabile giallo e grossi stivaloni blu, spensierato, saltava da una pozzanghera all’altra, disposto a correre il rischio di un brutto raffreddore pur di divertirsi. Era uno spettacolo che mi affascinava e dentro di me sentivo un’emozione che iniziava a risvegliarsi. Il mondo mi chiamava, ma io ero bloccato tra quelle quattro mura che per me avevano sempre rappresentato tutto ma che adesso assomigliavano sempre di più ad una prigione. L’ignoto, le possibilità infinite che mi aspettavano lì fuori mi stavano quasi “cambiando”. E mentre stavo lì a rimuginare, mi accorsi di un piccolo soffio di aria fresca provenire dalla porta della veranda. Mi avvicinai e, tra un misto di stupore, eccitazione e paura, mi accorsi che era aperta. La spalancai. Il mondo si apriva immenso di fronte a me, l’odore intenso della terra umida solleticava il mio olfatto e l’aria fresca pizzicava il mio corpo caldo, che iniziava a essere scosso da tremiti. Mille pensieri affollavano la mia testa, mille emozioni vorticavano intorno a me, mi intimavano di rimanere dentro, di stare al sicuro, mentre una sensazione nuova, un istinto quasi primordiale mi spingeva fuori. Scelsi l’istinto, e corsi sotto la pioggia. Le gocce che scendevano su di me, la libertà di correre senza freni: per la prima volta mi sentii davvero vivo. Correvo, correvo seguendo la strada di fronte a me, troppo euforico per accorgermi che la mia casa appariva sempre più lontana e tutto ciò che mi circondava diventava sempre meno familiare.
Quando tornai in me, il terrore mi assalì. Dove ero finito? Dove era la mia casa? Dove era il mio amato quartiere? Nuovi edifici si ergevano intorno a me, nuovi volti vedevo attraversare la strada, luci e rumori nuovi mi colpivano. Perso. Una parola che avevo sentite pronunciare ai miei quando non riuscivano a trovarmi a casa, con una voce e un tono strano, preoccupato, triste. Mi ero perso, avevo perso la mia famiglia e tutto per aver seguito un istinto che raramente mi avevo sfiorato prima d’ora. Non riuscivo ad orientarmi, non sapevo trovare la strada di casa. Alla disperazione si aggiunse la fame, il mio stomaco brontolava, ero fradicio e avevo freddo. Sentivo un leggero odore di pollo arrosto che aleggiava nell’aria e mi diressi verso il punto in cui sembrava farsi più intenso. Si trovava all’angolo della strada: era un chiosco, dietro il quale un uomo grasso con un grembiule armeggiava con delle ali di pollo. Mi avvicinai e cominciai a chiedergli se poteva aiutarmi a tornare a casa o se poteva darmi qualcosa da poter mettere sotto i denti. Per quanto chiedessi insistentemente, l’uomo non sembrava capirmi, a malapena si accorgeva di me. Appena mi vide cerco di mandarmi via e per un soffio non mi colpì con un calcio, urlandomi “Vai via, brutto cane rabbioso! Sparisci!”. Ero terrorizzato, ero scosso, ero confuso. Corsi via, e trovai riparo sotto un ponte. Continuavo a pensare alle parole di quell’uomo, all’odio con il quale le aveva dette, a quel termine con cui mi aveva chiamato, “cane”, a come non riusciva a comprendere ciò che dicevo. Non capivo il suo comportamento. Perché non mi capiva? Perché mi aveva trattato quasi fossi un alieno, quasi fossi diverso? E’ vero, eravamo diversi fisicamente: io stavo a quattro zampe ed ero ricoperto di peli, lui stava su due zampe e sembrava nudo; anche i miei genitori erano fatti così, ma mi avevano sempre ricoperto d’amore, mentre credevo che il mio aspetto fosse soltanto “speciale”. Pensavo e piangevo. Il mondo non era quello scrigno pronto ad aprirsi e a mostrare tesori nascosti, ma si era rivelato un crudele e spietato imbonitore, pronto a illuderci, a deluderci, ad annientarci. E mentre il mio pensiero era fisso a casa, alla mia famiglia, al mio mondo, mi addormentai
Sono passati due anni da quel tragico pomeriggio di fine aprile e ancora non ho trovato casa mia. La vita da randagio è molto dura, la strada è una giungla, ma sono riuscito ad abituarmi, non senza ferite e sofferenze. Ho imparato a diffidare di chiunque, ho dovuto farlo per riuscire a sopravvivere, non passa giorno che non pensi alla mia famiglia, alle partite col mio vecchio in giardino, al mio “posto segreto” sotto il tavolo della cucina, al battito dolce e caldo del cuore di mia madre. Il mio mondo, la mia casa, è lì che mi aspetta. La speranza non mi ha mai abbandonato. Spero che non si siano arresi, spero che continuino a cercarmi, spero un giorno di poterli riabbracciare. Spero…

Dario Conti

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