Un complesso mosaico di interessi che dalla Libia passa per Malta, poi raggiunge la Sicilia e altri porti italiani e infine la Spagna e la Francia. Con profitti da decine di milioni di euro. Lo spaccato descritto dall’inchiesta Dirty oil è un gioco di trame e sotto trame. E al centro della partita c’è Catania. L’articolata organizzazione transnazionale finalizzata alla vendita e alla distribuzione del petrolio rubato dalla raffineria libica di Zawyia, situata a 40 chilometri da Tripoli, sarebbe stata composta dalle figure più disparate: c’è il capo di una milizia libica sospettata di sostenere l’Isis in patria, ma anche un uomo che alcuni collaboratori di giustizia indicano come appartenente al clan mafioso Santapaola-Ercolano.
Nel complesso gli indagati sono 50. L’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Catania contempla nove arresti, sei in carcere e tre ai domiciliari. Dietro le sbarre finiscono anche personaggi già noti agli inquirenti italiani: è il caso del 45enne catanese Nicola Orazio Romeo, inserito dai racconti di più di un pentito nell’organico dei Santapaola-Ercolano, già denunciato nel 2008 per la sua presunta appartenenza al sodalizio mafioso e per presunti casi di estorsione praticati tra Acireale e Aci Catena. La guardia di finanza lo ha raggiunto nella sua villa «del valore di un milione di euro» a Santa Maria Ammalati, frazione acese. La sua presunta appartenenza alla mafia, però, non è stata riconosciuta dal gip nell’inchiesta emersa oggi.
Ma la figura centrale dell’affaire gasolio sarebbe Fahmi Mousa Saleem Ben Khalifa, capo di una milizia armata attiva sulla costa libica al confine con la Tunisia, tra le città di Zawyia, Zuara e Sabrata. Il sito specializzato Gli occhi della guerra lo definisce «uno dei più grandi trafficanti di esseri umani, petrolio e droga del Mediterraneo». Soprannominato «il Malem» (il capo), era fuggito dal carcere nel 2011 alla caduta del regime di Mu’ammar Gheddafi. Stava scontando una condanna a 15 anni per traffico di stupefacenti. I suoi incarichi dirigenziali in società petrolifere lo avrebbero favorito nel trafugare il carburante dalla raffineria di Zawyia. Pescherecci e piccole navi da trasporto in suo possesso avrebbero portato in acque libiche e maltesi il prodotto, poi trasferito a imbarcazioni commerciali della Maxcom bunker spa con il metodo «ship to ship», ovvero affiancamento e pompaggio da una nave all’altra attraverso una potente tubazione. Il procuratore capo Carmelo Zuccaro è convinto che una parte dei profitti dell’organizzazione sia finita nelle casse dell’Isis per il suo tramite. Sebbene la circostanza non riguardi questa indagine, dietro il traffico transfrontaliero di esseri umani – almeno in parte – ci sarebbero lui e altri indagati di Dirty oil.
Un altro degli arrestati è proprio l’amministratore delegato di Maxcom bunker Marco Porta, 48 anni. Sono indagati anche Rosanna La Duca, 48 anni, Stefano Cevasco, anche lui 48enne, e Antonio Baffo, 61 anni, tutti e tre dipendenti di Maxcom. In carcere anche i maltesi Darren Debono e Gordon Debono, entrambi 43enni. Il secondo è stato fermato all’aeroporto di Catania mentre si stava imbarcando per un volo verso l’estero. I due, assieme, a Romeo, avrebbero curato il trasporto via mare del petrolio e gestito la rete di società coinvolte nel business. Il libico Tarek Dardar sarebbe invece la mente finanziaria dell’organizzazione: controllava i conti correnti tunisini e maltesi su cui Ben Khalifa riceveva i pagamenti per il petrolio venduto.
Il metodo. Secondo la procura di Catania, il petrolio sottratto alla Noc (National oil corporation, l’unico ente libico dotato del potere di vendere legalmente il petrolio) è un carburante contenente una percentuale di zolfo inferiore allo 0,1 per cento, pertanto destinato al bunkeraggio, ovvero il rifornimento di navi e altre imbarcazioni. Le vedette Maxcom lo trasportavano fino al porto di Augusta, da cui, via terra, raggiungeva il deposito di Mazara del Vallo. Da lì, veniva distribuito in Sicilia e in Campania o spedito ai porti di Civitavecchia e Venezia, e poi raggiungeva anche la Spagna e la Francia.
Magistrati e guardia di finanza ritengono che, dal giugno 2015 al giugno 2016, oltre 30 carichi abbiano attraversato il Mediterraneo trasportando circa 80 milioni di chili di gasolio, per un valore (all’acquisto, non di mercato) di circa 30 milioni di euro. L’Iva evasa sul territorio italiano ammonterebbe a undici milioni di euro. In una prima fase, attraverso documentazione falsa, Ben Khalifa faceva credere che il prodotto fosse saudita. Poi l’aumentata attenzione dei media sui traffici marittimi sospetti di mezzi e beni tra la Libia e la Sicilia gli avrebbe consigliato di utilizzare il marchio libico, ovviamente falsificato.
Il profitto dei compratori era dato dal prezzo più basso offerto da Khalifa rispetto a quello di mercato (in alcuni casi addirittura del 60 per cento) e dall’evasione dell’Iva e delle accise. Ma tra gli indagati ci sarebbero anche una decina di titolari di stazioni di distribuzione Eni di Catania e dell’hinterland, ritenuti compiacenti, che avrebbero acquistato il gasolio dalla presunta organizzazione a prezzi da affare, rivendendolo agli ignari consumatori dopo aver manomesso le colonnine con il sostegno di un tecnico, anch’esso finito nel mirino degli inquirenti. Proprio da queste anomalie l’Eni avrebbe estratto il materiale riassunto in una denuncia da cui è partita l’inchiesta.
Per smantellare la presunta banda del petrolio, le fiamme gialle – in particolare il Gico, ma con il sostegno dello Scico – hanno sperimentato per la prima volta in Italia apparecchiature capaci di captare conversazioni effettuate tra telefoni satellitari. La stima autentica dei profitti del gruppo è resa difficile, quasi impossibile, dalla miscelazione del gasolio, operata non appena il prodotto raggiungeva il deposito di Mazara del Vallo. Una mescola che per altro diminuiva la qualità del carburante, all’insaputa dell’acquirente al dettaglio.
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