Dietro quel burattino c’è uno scrittore

Che sia una “favola” come tante altre non l’ho mai creduto. Nel mondo, Pinocchio è l’unica opera letteraria italiana che possa rivaleggiare in popolarità con la Divina Commedia, vantando traduzioni persino in latino. Nel suo Compendio di letteratura italiana del 1936, Natalino Sapegno definì Collodi un “manzoniano” e, accostando il suo romanzo al deamicisiano Cuore, lo giudicò “un libro di qualità più fine, di più ilare fantasia, di più ricca, se pur dissimulata sapienza psicologica”.

Poche parole, ma dense di sensi e domande: siamo certi che sia solo letteratura per l’infanzia? E la “sapienza psicologica” di cui parla il critico qual è? Perché si fa leggere Pinocchio per la sua valenza pedagogica? In che senso Collodi sarebbe un “manzoniano”? Perché sarebbe stato necessario aspettare quarant’anni, dopo la pubblicazione in rivista, per sancirne la consacrazione letteraria? Sono le domande che inevitabilmente si annodano al personaggio più popolare della letteratura italiana a partire da quella magistrale storia letteraria.

Dall’Elogio di Pinocchio di Pietro Pancrazi (1921-22) ad oggi è stato un inesausto accanimento esegetico che ha decretato la fortuna dell’opera e la possibilità della sua infinita rilettura, come per la Commedia dantesca: romanzo celebrativo dell’Italia umbertina per gli storiografi; poderosa macchina narrativa per semiologi e strutturalisti; specchio scuro dell’autore (un po’ come Alice per Lewis Carrol) per gli psicanalisti; vicenda di formazione, alla maniera di quella del manzoniano Renzo Tramaglino; selva di archetipi biblico-evangelici per i teologi.

A me affascina per l’irresolubile questione della “bugia” con cui l’umanità si dibatte sin dalle origini, e ancor prima, forse, per chi crede che il mondo stesso abbia avuto origine da menzogne, inganni, grandi violazioni di patti non scritti (quelli di Adamo ed Eva o il tradimento di Satana). Ed è quindi da condannare la menzogna (come pensavano Sant’Agostino e Montaigne) o da ammirare (per dar retta a Pascal e Dostojevskij)? La menzogna e il mentitore sono, per me, le più belle metafore della scrittura e dello scrittore. “Il poeta è un fingitore”, dice Pessoa, e lo è anche il romanziere, ovviamente.

Il naso di Pinocchio che si allunga o si accorcia è l’immagine stessa dello scrivere, una potente metafora della letteratura che, quasi per definizione, deve alternativamente giocare a nascondere e a rivelare. L’oscurità sta nel dire stesso, per cui ciò che viene detto non è esattamente quello che intendiamo dire. Questo paradigma lo rappresenta benissimo Manzoni nel settimo capitolo dei Promessi Sposi laddove scrive: “Il contadino che non sa scrivere, e che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge ad uno che conosca quell’arte, scegliendolo, per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida poco: l’informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone, nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte fraintende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me; piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell’altro, li corregge, li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni meglio alla cosa: perché, non c’è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche farli andare un po’ a modo suo”. Sta parlando di se stesso, Manzoni. E in questo senso Pinocchio è più manzoniano di Manzoni stesso. E molto più di una favola.

 

*ricercatore e docente di “Letteratura italiana” presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania.

Rosario Castelli

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