Dieci attori per Fassbinder

Una grande energia promana dal palcoscenico e tra il pubblico alla nuova rappresentazione di Fassbinder realizzata da Umberto Cantone al Teatro Bellini grazie alla produzione del Teatro Stabile Biondo di Palermo. Si tratta di un testo, “Sangue sul collo del gatto” (1971) raramente rappresentato nel teatro italiano.

E’ merito, oltre che della regia e del testo, dei dieci attori. Che formano un’alchimia sorprendente rivisitando i personaggi di Rainer Werner Fassbinder con gli occhi e le prerogative di oggi. Non a caso, è forse il testo più “atemporale” del grande drammaturgo e regista tedesco.

In scena, il poliziotto (Raffaele Esposito), il macellaio (Filippo Luna), il soldato (Vito Di Bella), il maestro (Pierluigi Corallo), l’amante (Giacomo Guarneri), la modella (Roberta Azzarone), la ragazza (Aurora Falcone), l’amata (Eva Drammis), la moglie del soldato morto (Jennifer DinChin) sono osservati dall’”aliena” Phoebe Zeitgeist (Cristina Coltelli) . In realtà, c’è una specie di attore-aggiunto che è il fotografo (Piero Motisi) il quale osserva e fotografa, come l’aliena, ma ancora più in disparte, senza mai entrare nell’azione e nel dialogo.

“Aliena”, tra virgolette, perché nello spettacolo di Cantone, Phoebe è anche altro: è il Grande Fratello che guarda tutto, è un’entità superiore, è Dio per chi ci crede, è ogni personaggio che si auto-osserva dall’esterno, è lo specchio, il giudizio, gli occhi degli altri, la morte, la vita, l’anima, l’angelo dell’apocalisse…

Cristina Coltelli raccoglie in pieno il ruolo che ognuno e nessuno di noi vorrebbe avere: guardare dentro le proprie miserie e le proprie ripetitive alienazioni e convinzioni, deformazioni professionali, ricerche impossibili dell’amore perduto o non raggiungibile. E guardare nell’ostinazione del perseguire obiettivi spesso puerili e meschini, spezzettati nella ordinaria vita di ogni giorno.

Con scambi di personalità, traslazioni di ruolo, caricature di noi stessi, il testo di Fassbinder sonda cinicamente tutti i rivoli intimi e i pensieri riduttivi dell’avventura terrena, estrapolando la ricerca dell’Io nell’altro e contemplando impudicamente il tema della omosessualità, della ricerca dell’amore perfetto per “un altro” perfetto, quello della paura dell’abbandono, della sfiducia nell’altro sesso e nella società. E’ un lavoro necessariamente corale, dove le capacità del regista sono esaltate nel comporre e coordinare le sapienti interazioni suggerite dal testo.

Le “psicosi” d’origine sessuale, sociale, economica, sono dunque incarnate senza pietà e con chirurgica profondità: gli attori eccellono nell’affondare il bisturi di Fassbinder dentro le piaghe di ogni personaggio,  schiaffando perfettamente sul pubblico la “definitiva decadenza dell’esserci”.

La chiave dello spettacolo è lei, la protagonista, Phoebe, che, afferma Cantone: “quando si mescola tra loro, innescando la miccia di un incongruo cut-up verbale, finisce con lo svelare il proprio intento estetico: fare tabula rasa.”

Da parole e frasi semplici, intrise della “banalità” giornaliera, Fassbinder compone la complessità del “privato-politico” attraverso una moltiplicazione di azioni e reazioni tra l’io e “l’altro-da-se”, l’alieno, appunto.

E così, Raffaele Esposito esprime “il poliziotto” con le schermaglie burocratiche di rito. E’ un rito che si dipana dunque sin dall’inizio. La scena così diventa via via il luogo “della resa dei conti,” per un testo che tende all’assoluto, partendo, però, da una presa diretta sulle frasi ordinarie. Filippo Luna, con una voce potente, afferma il proprio personaggio, “il macellaio”, quale punto di riferimento del credo economico a tutti i costi, anche a costo della sofferenza psicologica, sessuale, culturale e affettiva.  Vito Di Bella costruisce un “soldato” che non può non patire l’imposizione del morire al fronte, dilaniato nell’angoscia tra dedicarsi alla vita o dedicarsi alla morte. Pierluigi Corallo trascina il pubblico nella doppia personalità di superficiale e intimo disorientamento: quella  del “maestro” dalla doppia esistenza, dispiegata nella sua doppia vita di “diverso” e “intellettuale-insegnante” assegnatagli da se stesso e dalla società. Giacomo Guarneri magnetizza forse più di tutti l’attenzione del pubblico, centrando la personificazione delle ossessioni in un satiro, “l’amante”, quotidianamente depravato e sperduto in una sessualità da macho falsamente conquistatore. La giovanissima  Roberta Azzarone personalizza compiutamente il narcisismo al femminile della “modella” con la fobia dell’invecchiamento, condannata a una finta superficialità indotta dalla vita di ruolo assegnatale dal mondo temporaneamente “ovattato” e falso in cui vive. Aurora Falcone mette a nudo le innumerevoli ferite dell’acerba ”ragazza” tradita e maltrattata, concentrando ed emanando energie straordinarie che si rivelano centrali per tutto il percorso dello spettacolo: la vera vittima assoluta. Eva Drammis colpisce e frastorna interpretando perfettamente il suo personaggio, “l’amata”, che crede nella dominazione dei sentimenti, i quali si perdono nello squallore del “modo” relazionale fine a se stesso, sia esso omosessuale o eterosessuale: Eva trascina verso un personaggio che finisce per intrappolarsi nella “moda” impietosa e stereotipa. Jennifer DinChin descrive vigorosamente, punto per punto, l’angoscia della “moglie del soldato morto” e della protesta sociale senza via d’uscita, destinata al fallimento annunciato d’una contestazione politico-privata quanto mai attuale.

Cantone mette quindi in scena dieci attori così come li vuole Fassbinder: senza mediazioni intellettuali. Semmai osservati, non solo dall’entità esterna-Phoebe, ma anche da un fotografo che, di fatto, è un undicesimo attore, e che corrobora la visione esterna sulle piccolezze umane. E queste si compongono in una “tragedia dell’essere” nel mezzo del deserto e della cruda e ripetitiva vita quotidiana, puntualmente ripresa ed emulata da Phoebe che trasferisce da personaggio a personaggio vuote parole assimilabili all’uno o all’altro.

La scenografia d’un deserto a piani inclinati, realizzata da Pietro Carriglio, facilita dunque le possibilità d’interscambio e l’atemporalità che s’impone accompagnando l’azione.

D’altronde, lo stesso Cantone dice della sua esperienza:  “Fassbinder è anti-naturalista. Ha realizzato film assolutamente costruiti. Infatti  amava Luchino Visconti. I suoi sono tutti film costruiti con movimenti di macchina sofisticatissimi. E’ un iper-raffinato, che tende alla stilizzazione e alla costruzione: ha una sua diversità esibita. Una diversità in presa diretta. Come mia scelta e come mia vocazione, aldilà del fatto che il linguaggio è molto elementare, a me interessava questa costruzione con molti rimandi. C’è una ritualità geometrica, poi interrotta da questo voluto atteggiamento vampiresco, che scappa dal mondo, capendo che questa sorta d’integrazione non avviene. Il gatto è, infatti, “il diverso”, “lo straniero”… il gatto è tradotto, da noi, il terrone”.

E in effetti gli attori esplodono nel rappresentare personaggi -tipologie. Continua il regista: “Per Fassbinder, tutti i rapporti umani sono fondati sui conflitti che avvengono tra le mura domestiche, ma che entrano dentro un più ampio raggio che è quello della conflittualità sociale.  Allora, negli anni ’70, si diceva ‘privato e politico’ e per Fassbinder il privato è politico”.

Lo spettacolo traduce perfettamente questa posizione del drammaturgo tedesco. Il sound anni ’70 lo leggiamo dunque come un richiamo per rimarcare quello che dice l’amata: non è cambiato nulla. La piccola apocalisse quotidiana che viviamo è in definitiva, una pulsione per un inizio che non arriva: non c’è più niente d’aspettare.

Nelle foto, tratte dal sito facebook del Teatro Biondo, nell’ordine: 1. Una veduta d’insieme (con Cristina Coltelli in basso a destra), 2. Roberta Azzarone e Filippo Luna, 3. Raffaele Esposito e Giacomo Guarneri, 4.  Jennifer Din-Chin, e 5. Eva Drammis e Vito Di Bella.

Gabriele Bonafede

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