Dieci anni senza il “Pirata”

Il 14 febbraio del 2004, nella stanza D5 del residence riminese “Le Rose”, il cuore dell’uomo Marco Pantani depresso, solo, sconfitto, cessò di battere. Stando all’autopsia e dunque alla versione ufficiale, il campione più amato del ciclismo italiano degli ultimi vent’anni morì per edema polmonare e cerebrale provocato da un’overdose di cocaina, ma in tanti anni nessuno ha mai finito per credervi completamente.

Marco Pantani detto il “Pirata” era amato da tutti. Così come quando muoiono dei cantanti le loro canzoni diventano ancora più famose, adesso dopo ben 10 anni dalla sua scomparsa, Pantani è ancora amato da tutti, più di prima.
Il suo ciclismo era poesia allo stato puro, uno spettacolo teatrale nel senso più vero del termine. Marco Pantani andava in bicicletta, ma quando lo faceva, soprattutto quando la strada sotto le sue ruote iniziava a salire, sembrava quasi che recitasse uno spartito. Quel suo togliersi gli occhiali o buttar via la bandana prima di lanciarsi in uno scatto erano un rito che precedeva ogni sua azione. Poi c’era solo il vuoto dietro di se, l’arrancare degli avversari e infine la solitudine del campione, fino all’arrivo a braccia alzate, in una sequenza che abbiamo visto e rivisto e che per sempre terremo nella nostra memoria.

Marco Pantani non c’è più e manca ormai da 10 anni, se ne andato da solo dentro una camera di albergo mentre sicuramente ripensava e pensava e ripensava ancora una volta a tutto quello che aveva fatto durante la sua vita. L’amore della gente ma anche lo ostracismo di chi evidentemente soffriva quel suo essere campione evitando le luci della ribalta. Pantani era il ciclismo e non serve certo raccontare la doppietta Giro e Tour del 1998, oppure le sue imprese sulle cime più alte e famose d’Europa per capire cos’è stato.

Marco aveva un suo stile, un modo di correre unico e particolare, il suo carattere era schivo e riservato ma carismatico e con il piglio da leader. Fuoriclasse in bicicletta ma fragile nella vita. Di lui resterà il ricordo di un uomo che ha cambiato per sempre la percezione del ciclismo in Italia e forse anche in tutto il mondo.

I genitori di Marco vivono ormai da un decennio con il dolore della sua prematura scomparsa ad appena 34 anni, nell’età che da ragazzi si diventa uomini e per questo la famiglia non si arrende. Molte cose non quadrano. Marco in una pozza di sangue; la richiesta, prima di morire, di chiamare i Carabinieri invece che l’ambulanza; il “Pirata” senza bagagli ma solo una busta con medicinali; i tre giubbotti ritrovati nella stanza, uno da sci, che però Marco aveva lasciato in un’altra città.

Marco era una brava persona, parlava poco e quando lo faceva non lo faceva mai a sproposito, spesso comunicava con gli occhi, gli stessi che tante volte hanno provato a chiedere aiuto, ma quell’aiuto non è mai arrivato.

Alberto Porcaro

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