Se avete a cuore la stabilità del vostro apparato digerente, state alla larga da questo “Teeth (Denti)”. Al crocevia tra pulp, divagazioni ematiche alla “Hostel” e qualche pretesa di essere un racconto di formazione, il film drammatizza una credenza che attraversa e perseguita molte civiltà: quella della “vagina dentata”.
L’immaginario di molte popolazioni, significativamente non comunicanti tra loro – Greci, Polinesiani, Egiziani – è stato attraversato e suggestionato (almeno così dicono gli studiosi) da quest’incubo in grado di dare simbolicamente corpo alle paure dell’iniziazione sessuale maschile. L’antro fascinoso e temibile custodito dalla femmina della specie risulterebbe essere tutt’altro che ospitale, al contrario si rivelerebbe una trappola terribile.
A partire da quest’ancestrale timore, discusso anche da Freud in “Totem e tabù”, Michell Lichtenstein, figlio del famoso artista Roy, costruisce un film banale, una cosa terra terra.
La trama: Dawn, una giovane studentessa di liceo, bionda e carina, interpretata da Jess Weixler – i suoi lineamenti ricordano un po’ Uma Thurman -, presiede un’associazione votata per statuto alla purezza e alla verginità prematrimoniale. La scelta del gruppo, testimoniata da un anello rosso che non basta a tenere alla larga i ragazzi, è minata da un belloccio, parecchio incalzante, determinato a chiudere la bottega dell’onanista e a darsi alle gioie di un rapporto di coppia. Come lui altri avventurosi maschi della specie, che Dawn puntualmente punisce – quando sono un po’ troppo molesti – con… zac!, Una bell’affettata. A volare non sono tanti membri, nel film; comunque l’effetto non è molto divertente…
Non si capisce cosa il regista persegua esattamente. Se la dissacrazione comica, attraverso la degradazione del potere virile e attraverso la sua mortificazione, ne è lontano. Se invece Lichtenstein vuole affermare il simbolico dominio femminile, con in più vaghe finalità femministe, immaginando uno strumento che non lascia scampo – la vagina tagliente – allora il drammone adolescenziale, nella triste ambientazione Wasp, poteva essere evitato e si poteva andare alla sostanza e al potenziale metaforico insito in un soggetto così evocativo e dagli arcaici natali. In realtà, il regista ha tentato di trarre il massimo profitto dallo sforzo minimo, convinto di aver scovato, nel retaggio mitologico dell’idea di fondo del film, la gallina dalle uova d’oro. E ha provveduto a guarnirla di un po’ di splatter. Senza abbandonare la via maestra di molto cinema di consumo americano dell’epoca contemporanea, ovvero l’ossessione sessuocentrica/sessuofobica della società d’Oltreoceano, incapace di vivere in modo più disteso, meno ansiogeno, il racconto di qualsiasi relazione e intimità.
Intanto, il flusso ininterrotto di trailer e pubblicità – trenta minuti al multisala di Como – già annuncia la prossima porcheria: Decameron pie!
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