Il “principe” della musica leggera italiana – così viene definito ormai da anni – torna a Catania. E lo fa al Teatro Metropolitan, ad un anno dall’uscita del suo ultimo album, intitolato “Per brevità chiamato artista” . “Artista”, infatti, è l’unico appellativo che Francesco De Gregori riconosce, rinunciando volentieri a quello di “poeta” o “cantautore”, che inevitabilmente gli vengono attribuiti.
Il pezzo d’esordio della serata è “Quattro cani”. Un brano soft ed evocativo (tratto dall’album Rimmel, 1975), basato sulla metafora dei randagi. Metafora che introduce il pubblico al resto del repertorio, fatto di melodie lineari ma quasi in contrasto con significati di non immediata comprensione. E che ricorda «che è del mondo che sono figli, i figli». Un concetto apparentemente elementare, ma evocativo di un grande senso di libertà.
Si alternano poi pezzi “orchestrati” e pezzi da solista.
E’ la sola chitarra acustica ad accompagnare “Per le strade di Roma” (2006), impietosa ed amara descrizione dei quartieri della capitale: dalla Magliana all’Argentina, dalla Salaria alla Tiburtina, «sui cui terrazzi spunta il sole» proprio perché situata ad est. Medesima scelta strumentale per “L’angelo di Lyon” (2008), scritta dal fratello Luigi e definita dallo stesso De Gregori «una canzone d’amore sull’amore»: ritratto di un uomo che impazzisce e si perde alla ricerca della donna perduta. E ancora è sempre e solo la chitarra del cantautore a far da sottofondo a “Vai in Africa, Celestino”(2005), omaggio a Bob Dylan (con stoccatina a W. Veltroni e alla sua vocazione differita) che induce alla ricerca di una terra ancora incontaminata, come l’Africa, mentre nel resto del mondo «ognuno è martire del suo destino».
L’ingresso della band segna anche l’atteso tuffo nel passato del cantautore.
De Gregori ripercorre le pietre miliari della sua carriera cantautorale, passando da “Titanic” (1982), la ballata ispirata alle diverse classi sociali a bordo della famigerata nave, a “La leva calcistica della classe ’68” (1982), melodia dedicata al calcio e ai suoi valori. Da “Rimmel” (1975), storia di un amore freddo e distaccato, riproposta con un riff più ritmato e a tratti esotico, a “Viva l’Italia”, ritratto di una nazione che, se alla fine degli anni sessanta era «colpita al cuore», forse oggi sarebbe solo «da dimenticare».
Un viaggio nella storia della musica italiana, ma anche in quella dell’intimità umana. Il che rende difficile considerare solo una canzone un pezzo come “La donna cannone”: vera e propria poesia – non ce ne voglia l’artista – sull’amore di una donna da circo che rinuncia al suo numero per assecondare i sentimenti. O come “Sempre e per sempre” (2001), che regala al pubblico un momento di rara intensità. Forse perché accompagnata soltanto dal pianoforte. O forse perché è vero che «il vero amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai».
La chiusura è d’eccellenza. Con “Buonanotte fiorellino” ed una tenerezza trasformata in suono da una fisarmonica. E’ questa la peculiarità di De Gregori: l’incapacità di banalizzare i sentimenti, persino i più elementari.
A dimostrarlo, i continui “Bravo Ciccio!” urlati dal pubblico per ricambiare tutto il calore ricevuto. E per restituire quell’abbraccio, che il riservato Francesco ha elargito sin dalla prima canzone, usando la voce al posto delle braccia.
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