Dalla strage di Ciaculli a Capaci e via D’Amelio: le verità scomode di mafia e Stato

Per certi versi, quello che sta succedendo oggi in Italia con l’inchiesta della magistratura sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia ricorda ciò che avvenne negli anni subito successivi alla strage di Ciaculli (nella foto sotto, a sinistra, tratta da liberainformazione.org) nell’ormai lontano 30 giugno del 1963. Dopo quella strage – una Giulietta Alfa Romeo imbottita di tritolo che, esplodendo, uccise sette uomini delle forze dell’ordine – lo Stato si mobilitò, cominciando a perseguire i mafiosi.

Fu una grande mobilitazione politica e giudiziaria. L’allora presidente della Regione siciliana, Giuseppe D’Angelo, chiese l’istituzione della commissione parlamentare Antimafia. Mentre le forze dell’ordine e la magistratura fecero arrestare, nel giro di un anno, oltre 2 mila sospetti mafiosi.

Fu, lo ripetiamo, una mobilitazione per certi versi più efficace di quella voluta da Mussolini, quando, per combattere la mafia, inviò in Sicilia il Prefetto Cesare Mori. Morì, com’è noto, mise a ferro e fuoco interi paesi dell’Isola, arrestò tanti mafiosi, costringendo altri esponenti dell’onoratà società a lasciare la Sicilia (tantissimi mafiosi si rifugiarono negli Stati Uniti d’America).

Mori arrivò appena a sfiorare i ‘fili’ dell’alta borghesia mafiosa. Infatti, quando il “Prefetto di ferro” gettò gli occhi su alti esponenti siciliani dello stesso regime fascista, di fatto collusi con la mafia, venne allontanato dalla Sicilia.

Subito dopo la strage di Ciaculli lo Stato italiano andò un po’ più a fondo. Intanto, venne istituita, dal parlamento nazionale, la commissione d’inchiesta sulla mafia. E poi, come già accennato, si procedette ad arresti, anche ‘eccellenti’. Va ricordato che, per la prima volta, nel 1964, venne arrestato Luciano Liggio (foto a destra tratta da it.wikipedia.org), che allora era già considerato uno dei capi della mafia, anche se non il capo dei capi.

Liggio, che era stato definito la “primula rossa”, proprio perché le forze dell’ordine non riuscivano a catturarlo, venne arrestato a Corleone, in un’abitazione che distava appena 200 metri dalla stazione dei Carabinieri del paese. Sul comodino teneva una pila di libri, tra i quali spiccavano Guerra e pace di Tolstoj e la Critica della ragion pura di Kant. Affetto da una malattia che gli impediva di deambulare correttamente, Liggio chiese solo di essere messo in condizioni di prendere il sole.

Il parallellismo con i fatti di oggi, però, non riguarda Liggio, ma l’arresto dell’allora capo mafia della Sicilia, Giuseppe Genco Russo di Mussomeli. Per la cronaca, Genco Russo, nel 1943, anno in cui gli americani sbarcarono in Sicilia, era il numero due della mafia, perché la palma di numero uno spettava a Don Calogero Vizzini di Villalba. Già allora, da numero due, Genco Russo, teneva importanti rapporti con la politica italiana regionale e nazionale.

Quando Don Calogero Vizzini (foto a sinistra tratta dait.wikipedia.org) passa a miglior vita – cosa che avviene nell’estate del 1954 – Genco Russo diventa il capo della mafia siciliana. Con un’incoronazione plateale: ai funerali di Don Calò, infatti, Genco Russo (foto a destra tratta da mafia.wikia.com) è in prima fila. Dalla bara del capo mafia pende una corda nera con i ricami dorati che finisce sulle spalle, all’altezza del cuore, di Genco Russo: è il segnale, che tutti devono vedere, che il potere di Don Calò ‘passa’ a Giuseppe Genco Russo.

Quando, dopo la strage di Ciaculli, magistratura e forze dell’ordine arrestano Giuseppe Genco Russo succede il finimondo. Proteste più o meno ‘ufficiali’, polemiche, veleni. Un po’ come certe ‘telefonate’ intercettate di questi giorni.

Si apre, così, la stagione dei processi alla mafia. In uno di questi processi è imputato Genco Russo.

Quando il capo della mafia siciliana compare nell’aula di Tribunale, un brivido di paura attraversa come un’onda un ‘pezzo’ importante della classe dirigente non solo siciliana, ma anche italiana.

E’ a questo punto che – a nostro modesto modo di vedere – scatta il parallellismo tra quello che sta succedendo oggi con l’inchiesta sulla trattativa tra Stato e mafia e quello che successe allora.

Oggi assistiamo a scene che hanno dell’incredibile. I magistrati inquirenti hanno interrogato un ex ministro della Repubblica, Nicola Mancino, mettemdolo in grande difficoltà. Questo ministro ha telefonato a personaggi altolocati della politica italiana, chiedendo, di fatto, di essere difeso. Come ha spiegato con molta chiarezza in un’intervista rilasciata al nostro giornale Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo Borsellino, assassinato il 19 luglio del 1992 a Palermo nella strage di via D’Amelio (insieme con gli uomini e le donne della sua scorta), Mancino si sta esibendo in una chiamata di correo. Sta chiamando accanto a sé i suoi vecchi compagni di partito (e non solo di partito) dicendo: io da solo non pago. C’è una sua frase che è importante segnalare, là dove afferma: “Un uomo solo può fare altri nomi…”.

E’ interessante notare che – non tanto e non soltanto in difesa di Mancino – ma in difesa delle persone con le quali Mancino ha parlato al telefono, si è levato un coro di alte personalità dello Stato, politici e non soltanto politici, tutti pronti a difendere a spada tratta l’onorabilità di alcuni dei protagonisti di una delle storie più buie della Repubblica italiana.

Ebbene, sembra incredibile, ma la stessa cosa successe nei primi anni ‘60, quando alla sbarra finì Giuseppe Genco Russo. Quando il capo della mafia siciliana comparve nell’aula del Tribunale, come già ricordato, mezza Sicilia che contava tremò.

Il capo della mafia, da parte sua. presentò una lista di oltre 7 mila personaggi eminenti pronti a difendere la sua onorabilità. In questa lista c’erano uomini di Chiesa, banchieri, avvocati, commercianti e, naturalmente, una sfilza di uomini politici.

Spiace scrivere queste cose, ma il clima di questi giorni rievoca certe scene di quegli anni. In particolare, le cronache ricordano una lettera nella quale si poteva leggere: “Il signor Cavaliere Genco Russo di Mussomeli gode della massima stima di questa popolazione… in quanto ha sempre dedicato la propria vita al lavoro, beneficando molti cittadini… Preposto a funzioni pubbliche, ha dato esempio di proprietà, rettitudine, disinteresse”. L’avvocato di Genco Russo fece di più: minacciò di pubblicare integralmente i telegrammi di trentasette parlamentari democristiani, compreso un ex ministro della Repubblica, che ringraziavano il capo della mafia per avere avuto da lui un sostanzioso aiuto elettorale.

Di fatto, proprio dopo la prova di forza intentata da Giuseppe Genco Russo, i Tribunali italiani – che poi erano, per lo più, i Tribunali siciliani e qualche altro Tribunale del Sud d’Italia – vennero lasciati soli. Con le eccezioni del presidente della Regione siciliana, Giuseppe D’Angelo, di Girolamo Li Causi, esponente di spicco del Pci, di Simone Gatto, esponente del Psi e di qualche dirigente del Movimento sociale italiano, la politica non sostenne la Giustizia.

Anzi, la mafia lanciò un monito alla politica, non facendo rieleggere all’Assemblea regionale siciliana il presidente della Regione uscente, il democristiano Giuseppe D’Angelo, ‘punito’ per aver combattuto i mafiosi (anni dopo, i pentiti diranno che D’Angelo era stato addirittura “condannato a morte”, sentenza che non venne eseguita per l’opposizione di alcuni capimafia che ritenevano tale punizione eccessiva).

Va detto che la stagione dei primi grandi processi di mafia celebrati alla fine degli anni ‘60 si concluse con un nulla di fatto. Su 114 imputati ‘eccellenti’ soltanto 10 vennero condannati. Basti pensare che per la strage di Ciaculli nessuno finì dietro le sbarre (e nessuno rimase in carcere, perché subito dopo sopravvenne un’amnistia). Un trionfo, su tutta la linea, della mafia, della politica e della società siciliana – e italiana – di quegli anni.

Lo Stato italiano di allora non era ancora pronto per ‘sopportare’ una verità che avrebbe messo in discussione le fondamenta dell’Italia voluta dagli accordi di Yalta. Troppo forti erano gli interessi – non solo italiani – che tenevano insieme mafia e politica.

La Giustizia italiana, però, non si arrese. Anzi, forse è da lì che inizia una nuova stagione per l’affermazione della verità, contro le sopraffazioni mafiose. Saranno tanti i magistrati che – sempre senza l’ausilio della politica, o, al massimo, con l’appoggio di qualche politico – intraprenderanno un’azione in difesa – alla fine – dell’interesse pubblico.

Tra questi – tra la fine degli anni ‘60 e negli anni ‘70 – si segnaleranno Cesare Terranova e Gaetano Costa (foto a destra tratta da fotolog.com). Due magistrati che non si faranno certo intimorire né da Liggio, né da altri mafiosi, né dai politici che proteggevano gli stessi mafiosi. Il primo – Terranova – verrà ammazzato a Palermo il 25 settembre del 1979 insieme con il maresciallo di Polizia, Lenin Mancuso. Il secondo – Costa – verrà trucidato un anno dopo, esattamente il 6 agosto del 1980, sempre a Palermo.

Dopo Costa e Terranova altri magistrati e, in generale, altri uomini dello Stato cadranno sotto il piombo mafioso. Ricordiamo Rocco Chinnici, senza per questo voler fare torto ai tanti altri valorosi e coraggiosi uomini he hanno sacrificato la propria vita per l’Italia, che alla fine, come disse una volta Leonardo Sciascia, resta un “Paese senza verità”.

Così arriviamo al 1992. L’anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. L’anno della trattativa – o delle trattative – tra Stato e mafia. Da qui una considerazione e una domanda. La considerazione (peraltro già già accennata): l’Italia, alla fine degli anni ‘60, non era pronta per confrontarsi con certe verità scomode su Stato e mafia. La domanda: l’Italia di oggi, considerato che le ‘ombre’ del 1992 si proiettano sull’attuale contesto politico del nostro Paese, è pronta a reggere la verità scomoda su Stato e mafia?

In prima pagina foto tratta da nodo-salomone.esoterya.com

 

 

 

 

 

Giulio Ambrosetti

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