Dal Gambia all’Italia, l’inferno di Mamadou  «Mi avete salvato la vita, non lo dimenticherò mai»

Mamadou ha 23 anni e viene dal Gambia. Ha indosso una maglietta grigia a maniche corte, un paio di jeans e dei sandali. Il viso tondo incorniciato da una marea di riccioli cortissimi, sorride spesso lasciando scoperti denti bianchissimi. Quando parla non sta mai fermo, muove incessantemente gli occhi e le mani. Chiarisce che non ha difficoltà a rispondere alle domande, ma non vuole dire qualcosa che possa danneggiare l’Italia perché «quando ero in mezzo al mare e le possibilità di farcela pochissime, sono stato salvato dagli italiani». Lui è stato fortunato: è rimasto in acqua per qualche ora, ma la sua storia, come quella di tanti altri immigrati, è segnata da brutti ricordi. Ferite difficili da rimarginare come la cicatrice che porta sul braccio destro, una brutta ustione che si è procurato mentre lavorava in Libia per il suo salvatore-aguzzino.

Nel suo Paese non c’è la guerra, sotto il controllo del presidente Yahya Jammeh, un ex generale, però, non c’è libertà di espressione, gli informatori sono ovunque. Quando ha appena 15 anni, suo padre, un attivista del principale partito dell’opposizione, scompare nel nulla. Le sue tracce si perdono nel porto, dove lavorava come marittimo. Rimasto solo con la matrigna, Mamadou decide di partire in cerca di fortuna, ma non pensa all’Italia. Il suo obiettivo è la Libia, lì c’è il petrolio: è la “Svizzera” del continente africano. Grazie a un contatto inizia il viaggio, lungo sei mesi: dal maggio 2013 al gennaio 2014. Dopo alcuni passaggi di fortuna, Mamadou giunge in Niger, tappa obbligata della “rotta dei migranti”, il luogo da cui tutti i popoli dell’Africa subsahariana partono per la Libia, ma si ritrova senza un centesimo. Così ricontatta il conoscente in Libia che si offre di prestargli soldi che al suo arrivo dovrà restituirgli.

Come spesso accade, tuttavia, questi presunti benefattori si trasformano in aguzzini. Mamadou in Libia lavora per sei mesi, 14 ore al giorno come muratore ed elettricista per una paga di 10 dinari, circa 4 euro. Dopo un paio di mesi, risarcito il suo debito, però, il presunto benefattore non solo si rifiuta di pagarlo, ma lo minaccia con una pistola: «O torni a lavorare o ti sparo due colpi di pistola». È un costume diffuso in Libia, dove le persone provenienti dai paesi subsahariani vengono sfruttate all’inverosimile mentre la polizia chiude un occhio. Mamadou lavora a ritmi insostenibili per altri 4 mesi e, un giorno per la stanchezza, si ustiona gravemente con i cavi elettrici il viso e le braccia: «Mi cadevano pezzi di pelle dal viso e non vedevo più nulla – racconta – e ancora oggi ho fastidi agli occhi».

Non riceve cure, non viene portato in ospedale e rimane convalescente per alcune settimane a casa del libico. Quando si riprende, chiede nuovamente di esser pagato, ma anziché ascoltarlo il libico – che doveva a Mamadou 3-4mila dinari, circa 2000 euro – per tutta risposta lo accompagna sulla costa e da lì lo carica su un gommone. Anche questa è una pratica diffusa: dopo averli sfruttati per mesi, i libici cancellano il loro debito pagando il viaggio. Il trasferimento via mare costa circa 500-700 euro. Ancora una volta Mamadou ignora quale sarà il suo futuro, non sa se è stato venduto come schiavo o se raggiungerà effettivamente l’Italia, ma ritornare in Gambia, dove non ha futuro e famiglia, non ha senso.

Il futuro, al momento, è un gommone di 12 metri. A bordo, a condividere lo stesso incerto destino, gomito a gomito, almeno 100 persone, per lo più uomini, una ventina di donne e una decina di bambini. Costretti l’uno accanto all’altro, con le gambe serrate, muoversi è impossibile, con i trafficanti pronti a colpire chiunque tenti di alzarsi. Dopo pochi minuti «non senti più le gambe – ricorda – e i bisogni li fai addosso, dentro il gommone. Alzarsi è impensabile». A bordo i trafficanti non rimangono. Dopo pochi metri, il libico alla guida lascia il timone a uno di loro, istruito il giorno prima, ma privo di alcuna conoscenza nautica. Lo scafista si getta in mare ed è subito recuperato.

Fortunatamente per Mamadou il viaggio in mare dura poco, appena 24 ore. Poi un’unità del dispositivo Mare Nostrum li soccorre e, dopo un altro giorno di navigazione arrivano in Sicilia. Si salvano tutti. Viene condotto nel centro immigrati di Milo, a Trapani. Ora Mamadou attende di incontrare la commissione territoriale. L’incontro, dopo un attesa lunga un anno e mezzo, dal gennaio 2014 all’aprile 2015, è saltato perché i funzionari erano impegnati e per un errore il Cas (Centro di accoglienza straordinario) non è stato informato. Adesso dovrà attendere altri 4 mesi, fino ad agosto. Nonostante lo sconforto iniziale si ritiene fortunato, la sua vita in Gambia non era facile. È grato all’Italia e vuole rimanere qui: «Mi avete salvato la vita, pensavo di morire in mezzo al mare e questo non lo dimenticherò mai».

Antonio Mercurio

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