Cchi ti lassuru i morti?
Era questa la domanda che il 2 novembre (giorno della commemorazione dei defunti) eravamo soliti rivolgerci quando eravamo piccoli, cui seguivano le risposte più disparate. Una bambola, un’automobilina, una bicicletta, un camioncino, un fucile, una pistola a caps (così chiamata per le capsule inserite nel tamburo che, percosse azionando il grilletto, provocavano un botto simile a quelli di cui abbondavano i film western) erano quelle più frequenti, ma ce n’erano altre (un paio di calze, un maglioncino, un paio di scarpe), dovute a una certa saggezza che suggeriva di anteporre l’utile al dilettevole, evitando giocattoli che presto sarebbero stati accantonati.
Aveva così fine la lunga attesa cominciata negli ultimi giorni di ottobre quando si attendeva con impazienza l’arrivo di novembre, non soltanto per le prime vacanze dell’anno scolastico (dall’uno al quattro), quanto per i regali che, secondo la tradizione, nella notte tra l’uno e il due novembre i defunti portavano ai bambini nelle case dei loro cari.
Era un rito che si ripeteva ogni anno e che piccoli e grandi vivevano in maniera diversa: i primi, felici per avere ricevuto dai parenti scomparsi, che magari non avevano mai conosciuto, il tanto atteso regalino; i secondi, lieti per la gioia stampata nei volti dei propri figli che alleviava la tristezza di una ricorrenza che rinnovava l’assenza di persone a loro care. Un rito che, nello stesso tempo, contribuiva a rendere sempre più forte il legame tra presente e passato e tra le generazioni, alimentando così quella corrispondenza di amorosi sensi con chi non c’è più.
Non sapevamo che, dopo qualche anno, a portare i regali ai bambini non sarebbero stati più i morti, ma Babbo Natale o la Befana – entrambi più rassicuranti e meno lugubri, l’uno e l’altra, in grado di evitare ai bambini traumi che avrebbero potuto influire in maniera determinante sulla loro crescita – e che in nome di una esasperata modernità avremmo cancellato il nostro passato, senza renderci conto di recidere le nostre radici. Non solo: per colmo di contraddizione saremmo stati capaci anche di anteporre il macabro della notte di Halloween alla dolcezza della notte dei morti.
Sarebbe stato il nostro contributo all’avanzare della modernità!
Tutto ciò ci induce a porci qualche domanda e a concludere che sarebbe il caso di non dimenticare che si è moderni non perché si è capaci di accogliere acriticamente tutte le mode che offre la globalizzazione, ma nella misura in cui si riesce a conservare le tradizioni del passato che, riviste e rivitalizzate alla luce dei tempi, diffondono valori sui quali costruire qualcosa di veramente diverso e migliore.
Perché ciò avvenga occorrono, però, intelligenza e sensibilità, quell’intelligenza e quella sensibilità che né la fretta né la frenesia che caratterizzano la nostra vita quotidiana possono alimentare e sostenere.
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