Dacci oggi giustizia quotidiana

“Dicono che noi magistrati siamo una casta attaccata alla nostra indipendenza. Ma questa è patrimonio dei cittadini, altrimenti il governo potrà dire cosa fare e cosa non fare. Così l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge va a farsi…”. “Benedire, va a farsi benedire” suggerisce il pubblico ridacchiando. “… friggere!” conclude l’oratore, tra gli applausi della sala. E’ Gian Carlo Caselli a parlare e, come sempre, non le manda a dire.
 
L’intervento del magistrato è stato uno dei più seguiti durante il seminario “Giustizia: quale futuro?”. Uno dei tredici incontri del pomeriggio di sabato 20 marzo, organizzati da Libera per la XV giornata nazionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie. Una grande aula strapiena di giovani, nonostante il tema apparentemente tecnico. Gente in piedi, gente per terra, nel freddo pavimento di marmo, gente che origlia da dietro alla porta.
 
A introdurre l’argomento è Anna Canepa, magistrato della Direzione Nazionale Antimafia e coordinatrice dell’osservatorio sulla criminalità organizzata per Lombardia e Liguria. Si discute di riforma della giustizia che, tra processo breve e intercettazioni, “dimentica che la geografia giudiziaria risale ancora al 1800”, sottolinea la Canepa. Perché, come lei ha più volte ricordato, solo la giustizia ordinaria, “quella di tutti i giorni, dal furto del motorino allo scippo, può evitare che i cittadini si rivolgano all’Anti-Stato, le mafie”.
 
A spiegare subito come stanno le cose interviene proprio il collega Caselli, spiegando il malfunzionamento della giustizia italiana con esempi semplici e diretti.
“La polizia giudiziaria possiede 270 mezzi, tutti da rottamare. Abbiamo chiesto al ministero della Giustizia e lì ci hanno rimandato agli Interni. Lo stesso al contrario – dice – E’ un continuo rimpallo di competenze”. Ma non va meglio con le risorse umane: segretari, cancellieri e stenografi che dovrebbero supportare i magistrati nel proprio lavoro e snellirlo sono il 15 per cento in meno del necessario. “Da 12 anni non si assume più personale amministrativo, nonostante i pensionamenti – continua Caselli – Ma lo sapete che le udienze senza cancellieri sono nulle? Per questo siamo costretti a svolgerle solo due o tre giorni a settimana, anziché sei”.
 
Così capita anche che 12 camorristi a Napoli restino liberi perché, senza personale, nessuno si accorge che alle duecento pagine di motivazioni del giudice per procedere all’arresto manca una fotocopia: 199 pagine su 200 e i boss sono liberi.
Tra cavilli e garanzie, è sull’incoerenza del governo che Caselli vuole far riflettere. “Se io dico che la lotta alla mafia è prioritaria e poi che i magistrati sono talebani, apparentemente la cosa più garbata che è stata detta, la credibilità rischia di appannarsi”, spiega. Nemmeno il tempo per un altro scroscio di applausi che il discorso continua le intercettazioni. Secondo la nuova legge i magistrati potranno richiederle solo per “evidenti indizi di colpevolezza” anziché, come prima, “gravi indizi di reato”. Due termini già molto diversi “grave” ed “evidente”, ma soprattutto, come fare ad avere indizi di colpevolezza se le intercettazioni servono proprio ad accertarli? Caselli  è chiaro: “E’ stato calcolato che con la nuova legge si ridurranno del 50 per cento. Significa che i delinquenti avranno una possibilità in più di farla franca. Questo riguarda la sicurezza dei cittadini, di cui si parla tanto. Si invoca la tolleranza zero, ma solo in certi casi”. Non si tratta certo di mafiosi e terroristi, per cui la legge è meno restrittiva, ma il buco resta evidente.
 
Il suo denso intervento vola in un attimo. A proseguire sono le molte donne sedute al tavolo. Come Giuliana Merola, della Corte d’Appello di Milano e “giudice particolarmente muto” come la definisce il giornalista Pietro Colaprico, anche lui tra gli oratori. La Merola ricorda le recenti polemiche sulla decisione di vendere i beni confiscati e non assegnati. Anche lei, come i suoi colleghi, è diretta: “I beni non assegnati hanno delle criticità non risolvibili a breve, come ipoteche, occupazioni abusive e sequestri parziali, oppure non dovrebbero nemmeno esistere perché non rientrano in nessun condono edilizio – spiega –. Chi potrebbe mai comprare una casa così? Ovviamente si dice che solo le persone a cui sono stati sequestrati possono avere interesse all’acquisto”.
 
E fin qui, si è parlato di procedimenti penali. Ma è Stefania Pellegrini, sociologa del diritto, a ricordare come anche l’avvocatura abbia le sue responsabilità e il processo civile non soffra meno del penale per “una carenza di personale amministrativo e di investimenti, come quelli per la formazione e il cosiddetto processo telematico”.
 
A proposito di diritto civile, siede al tavolo Piero Colaprico, giornalista di La Repubblica e scrittore. Venerdì 12 marzo è uscita una sua inchiesta sui problemi della giustizia civile, di una lunghezza biblica. “C’è il caso di un paesino vicino Napoli che mi ha colpito – racconta Colaprico –. Una causa per un palazzone è iniziata nel ’76. Adesso, dopo 100 udienze e 7 giudizi, spuntano due nuove pretendenti all’appartamento, due vecchie zie. Che si fa? Si ricomincia da capo?”. E il ’76 è proprio una data importante per il giornalista, l’anno del suo arrivo a Milano. “Nel frattempo che quei signori discutevano per la casa io ho frequentato l’università, mi sono sposato e ho fatto due figli. E’ assurdo”. Però, ricorda Colaprico, non è così dappertutto: “C’è una giustizia a due velocità: per una causa di fallimento a nord ci vogliono in media 2561 giorni, 3333 al centro e 4052 al sud. Serve anche un esame di coscienza da parte della magistratura”.
 
Le ultime parole, Colaprico, vuole rivolgerle ai giovani, soprattutto a quelli del nord, affinché leggano, studino e capiscano che la criminalità è vicina anche alle loro case: “Se qualcuno vi dice che qui la mafia non esiste, voi rispondete ‘sei uno st… stupidino’, per copiare Caselli. Che forse prima o poi alla legalità ci arriveremo. Magari non io, ma mia figlia sì”.
 
Ed è così che si arriva alle testimonianze in sala. Scende un silenzio religioso ma partecipato quando sale sul palco Antonietta Burgio, madre di Pierantonio  Sandri, il ragazzo scomparso a Niscemi nel ’95 e di cui solo adesso – dopo le rivelazioni di un pentito – si è ritrovato il cadavere. Ninetta racconta la sua storia con fermezza e, mentre al microfono si avvicina un’amica di Pierantonio, Anna Canepa si alza e la bacia sulle guance. Un gesto semplice e discreto, di complicità. La ragazza, intanto, si rivolge ai suoi coetanei tra il pubblico: “Noi siamo il futuro e dobbiamo parlare. Dobbiamo collaborare con la giustizia, perché da sola non può farcela. Le nostre piccole parole, tutte insieme, diventano un urlo”. Gli applausi si caricano di forza.
 
E’ lo stesso per Maria Scaglione, figlia di Pietro Scaglione, il primo magistrato assassinato in Sicilia dalla mafia il 5 maggio ’71. “Dopo 39 anni io non so chi ha ucciso mio padre. Ho un’unica consolazione: nell’istruttoria si legge che mio padre fu un persecutore della mafia”. Stavolta è Caselli a baciarle la mano.
 
A collegare i due fili, quello della commozione e del ragionamento sul futuro è Gianluca Floridia, di Libera Ragusa: “La memoria è fortemente intrecciata alla richiesta di giustizia. Per ogni Peppino Impastato che ha avuto la fortuna di trovare un giudice come Rocco Chinnici, ci sono ancora gli insabbiati”.
 
A chiudere è Anna Canepa, la moderatrice, ricordando come attraverso il futuro della giustizia passi anche quello del Paese. A lei, che ha da poco concluso dieci mesi di lavoro volontario a Gela, dopo una prima esperienza a Caltagirone nel 1992, abbiamo chiesto come sarebbe possibile estirpare la malapianta nelle regioni del sud. “E’ un problema di giustizia quotidiana, lo ripeto. Bisogna rendersi conto che si tratta di una questione strutturale e affrontarla non in maniera eccezionale ma, appunto, normale”.

Photogallery della manifestazione di Piazza Duomo a Milano

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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