Da Portella delle Ginestre a Pio La Torre

Oggi primo maggio 2012, il nostro giornale ospita due pregevoli interventi. Franco Nicastro – del quale pubblichiamo un capitolo di un suo libro – ci riporta al 30 aprile del 1982, quando i mafiosi uccidono Pio La Torre. Mentre Giuseppe Casarrubbea rievoca la strage di Portella delle Ginestre, vicenda che insaguina l’1 maggio del 1947. Noi proveremo a ‘rileggere’ questi due fatti. Partendo da quello che fino ad oggi è stato accertato. Cercando, anche, di ragionale su due eventi che hanno due elementi in comune: la mafia e la reticenza.

Gli studi condotti da Giuseppe Casarrubbea negli ultimi vent’anni o giù di lì hanno accertato alcune cose a proposito della strage di Portella delle Ginestre. In primo luogo, il ruolo avuto dagli americani. In secondo luogo, la parte svolta dalla mafia. In terzo luogo, la partecipazione, non proprio centrale, della banda di Salvatore Giuliano.

 

Portella, c’era chi sapeva
La strage di Portella (nella foto tratta da libera.it la lapide) è stata preparata con cura. E non in totale segreto. Tant’è vero – e ormai questo è assodato – che tanti esponenti politici ne erano a conoscenza già nei giorni precedenti. Democristiani, comunisti e socialisti. E’ noto, infatti, che alcuni dirigenti politici che la mattina dell’1 maggio avrebbero dovuto trovarsi a Portella, guarda caso, non si fecero vedere.

Inutile andare a rivangare i nomi dei politici che quella mattina non si recarono a Portella delle Ginestre. A distanza di tutti questi anni non servirebbe a nulla. Ma due cose, lo ripetiamo, sono certe. Primo: la strage venne preparata con cura. Secondo: una parte del mondo politico sapeva che quella mattina, a Portella, sarebbe successo ‘qualcosa’.

C’è, poi, il ruolo degli americani. Che in quella fase storica svolgevano in Sicilia un ruolo centrale. Stavano costruendo gli ‘equilibri’, funzione diretta degli accordi di Yalta, che avrebbero retto fino alla caduta del muro di Berlino, cioè sino alla fine degli anni ‘80. E’ difficile che gli americani non abbiamo esercitato un certo ruolo nella strage. Bisognerebbe provare a capire per quale scopo. A questo cercheremo di dare una risposta esaminando gli altri due elementi: la mafia siciliana e la banda Giuliano.

Sul ruolo della mafia e della banda Giuliano nei fatti di Portella, una chiave di lettura la forniscono gli atti del processo di Viterbo. Sono documenti che andrebbero studiati attentamente. Perché la magistratura giudicante, quasi sempre, oltre alla verità processuale – che può essere opinabile – dà anche elementi che possono invece risultare, come in questo caso, oggettivi.

I colpi mortali (ma anche quelli che hanno provocato feriti) sparati a Portella delle Ginestre l’1 maggio del 1947 sono tutti radenti. In pratica, sono stati sparati da qualcuno che si trovava in mezzo alla folla, possibilmente nascosto. Non sono stati sparati da chi – come gli uomini della banda Giuliano – si trovavano sulle alture che sovrastano Portella delle Ginestre. Questo, molto semplicemente, significa che quella mattina ‘qualcuno’ spedisce la banda Giuliano a Portella per coprire un’operazione stragista. Nell’esaminare questo particolare – colpi radenti e non sparati dall’alto – i giudici di Viterbo parlano di “grave negligenza”, con riferimento a chi, ovviamente, ha tralasciato tale ‘dettaglio’.

Questo non assolve la banda Giuliano da altre responsabilità. Anche contro esponenti della sinistra che, in quei giorni, il bandito – forse spinto da ‘qualcuno’ – provava ad uccidere. C’è un rapporto diretto tra il ‘qualcuno’ che ha organizzato la strage di Portella e il ‘qualcuno’ che spingeva Giuliano a sparare contro i dirigenti della sinistra di quegli anni? In ogni caso, sui fatti di Portella delle Ginestre le responsabilità – e gli esecutori della strage – vanno cercati altrove. E qui il cerchio si chiude: americani e mafia.

Resta da capire perché è stata compiuta questa strage. Su un elemento non ci dovrebbero essere dubbi: quella di Portella è stata una strage per il ‘centrismo’. Nel momento in cui si decide di sparare a Portella, con molta probabilità, americani e mafia hanno già individuato nel sistema dei partiti allora nascente – e segnatamente nella Dc – l’interlocutore con cui trattare.

La storia – che in Italia non sempre è scritta bene – ci ha consegnato una strage di Portella pensata per intimidire il movimento della sinistra siciliana. Tesi vera solo in parte. E’ vera perché nel 1947, nel primo parlamento siciliano della nascente Autonomia, Pci e Psi avevano la maggioranza relativa. E’ vera solo in parte perché questa tesi non tiene conto di due elementi. Il primo elemento lo abbiamo già sottolineato: tanti esponenti della sinistra siciliana – del Pci e del Psi – sapevano che, quella mattina, sarebbe accaduto ‘qualcosa’. Magari non sapevano cosa di preciso: ma ‘qualcosa’ sapevano. Tant’è vero che, come già ricordato, non si presentarono a Portella. Questo è un fatto oggettivo che non può essere smentito.

Secondo elemento: in quel momento, in Sicilia, il sistema dei partiti, piuttosto fragile, doveva vedersela con un movimento di popolo che era, invece, organizzato e determinato: i separatisti. Sia chiaro: nel movimento separatista della Sicilia convivevano varie ‘anime’. C’era un separatismo agrario e reazionario che orbitava attorno a grandi proprietari terrieri. Alcuni di questi erano in buona fede, altri erano legati ad ambienti monarchici e neo fascisti. Poi c’era parte del separatismo legata direttamente ad ambienti neo-fascisti e, forse, anche a settori dei servizi segreti americani. Infine c’erano le ‘anime’ del vero separatismo, non legate ad alcun potentato: pensiamo ad Attilio Castrogiovanni, a Concetto Gallo e, soprattutto, ad Antonio Canepa (foto sotto tratta da it.wikipedia.org) . Teniamo fuori volutamente Andrea Finocchiaro Aprile perché il personaggio è, per alcuni versi, controverso.

 

Delegittimare il separatismo
Di fatto, la strage di Portella – le cui responsabilità, per lunghi anni, verranno ascritte ai separatisti e alla banda Giuliano – servirà ai partiti del cosiddetto ‘Arco Costituzionale’ per legittimarsi e, soprattutto, per delegittimare l’anima nobile del separatismo siciliano: che era, poi, quella che faceva più paura al sistema dei partiti. Canepa verrà ammazzato insieme a due suoi compagni nelle campagne di Randazzo in circostanze mai chiarite, mentre gli altri esponenti dell’anima nobile del separatismo – per esempio, Attilio Castrogiovanni e Concetto Gallo – vedranno svanire prima il sogno di una Sicilia libera e poi l’opportunità offerta alla Sicilia dalla ‘conquista’ dell’Autonomia, che i partiti dell’Arco Costituzionale ‘macineranno’ nel corso degli anni successivi, tradendo lo Statuto siciliano all’insegna del più bieco ‘ascarismo’ (non tutti i politici siciliani si venderanno a Roma per il classico piatto di lenticche: Giuseppe Alessi (foto sotto a sinistra tratta da xoomer.virgilio.it) – di certo il più importante e serio esponente della storia dell’Autonomia siciliana – si dimetterà da presidente quando, alla fine degli anni ‘50, la Corte Costituzionale, con una sentenza truffaldina, ‘assorbirà’ le competenze dell’Alta Corte per la Sicilia, che, però, non verrà mai abrogata con una legge costituzionale).

Ma se le anime ‘nobili’ del separatismo siciliano verranno travolte, anche grazie a un uso strumentale della strage di Portella, le altre ‘anime’ meno nobili rimarranno vive e vegete, anche se sotto mentite spoglie. Gli agrari dopo una breve ‘sosta’ tra i monarchici, passeranno, armi e bagagli, nella Dc. Lo stesso faranno i mafiosi che si erano intrufolati sotto le bandiere separatiste: in buona parte proveranno a farsi spazio nella Dc, ricattando e costringendo al silenzio quei dirigenti della stessa Democrazia cristiana, legati a don Luigi Sturzo e ad Alessi, che si opponevano, spesso anche con determinazione, all’arrivo dei mafiosi (uno di questi, Pasquale Almerico, verrà ammazzato: ma non sarà l’unico).

La parte ‘nera’ del separatismo siciliano continuerà invece ad operare in un’area indefinita, talvolta politica, qualche altra volta in ambienti ‘strani’. Personaggi che appariranno e scomparirano in occasioni di fatti oscuri della storia della nostra Repubblica.

 

Il ruolo di Antonino Varvaro
Lo stemperarsi di questi separatisti – non proprio idealisti – nel sistema dei partiti non coinvolgerà soltanto la Dc. Ne ritroveremo, per lunghi anni, tracce in altri schieramenti politici. Un personaggio che è stato poco studiato – e che invece meriterebbe un capitolo a sé, proprio per il ruolo che ha esercitato negli anni bui subito successivi al secondo dopoguerra – è l’avvocato Antonino Varvaro, separatista e poi, per lunghi anni, esponente del Pci siciliano. Varvaro fu anche deputato regionale del gruppo comunista. Ma, ripetiamo, come tanti altri personaggi che proiettano la sinistra siciliana in storie non esattamente cristalline, non abbiamo, ancora oggi, grandi testimonianze. Reticenza, insomma.

Il silenzio che da sempre aleggia sui rapporti tra una ‘certa’ sinistra siciliana e i settori meno ‘nobili’ del separatismo la ritroviamo, ancora oggi, sempre nella sinistra – ma questa volta di sola derivazione comunista – a proposito dell’omicidio di Pio La Torre.

Su La Torre, come abbiamo già detto, ha scritto oggi Franco Nicastro. Noi ci soffermeremo su alcuni passaggi del ritorno di La Torre in Sicilia durato, sì e no, otto-nove mesi.

Pio La Torre era un personaggio particolarmente odiato dai mafiosi. Intanto perché, nel 1976, quando la commissione parlamentare Antimafia nazionale concludeva i lavori dopo oltre 14 anni di indagini e approfondimenti, era stato l’unico ad avere il coraggio di scrivere – mettendoci la propria faccia – la relazione di minoranza di parte comunista.

Ricordiamo che quando la prima commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia conclude i lavori, i partiti sono divisi. La Democrazia cristiana ‘nicchia’. Non vuole ‘camurrie’ (fastidi, per i non siciliani). Al proprio interno c’è di tutto: mafia e antimafia. Il risultato è che si avranno tre relazioni conclusive: una di maggioranza (sottoscritta dalla Dc con un Psi un po’ pavido che si accoda perché ormai troppo ‘governativo’) e due di minoranza (una del Pci e l’altra dell’Msi).

Quella di maggioranza – scritta dai democristiani – è una relazione grigia che dice e non dice. C’è un’analisi storica, ma c’è anche la volontà di non toccare troppi ‘fili’ scoperti. La relazione di La Torre, al contrario, va al cuore del problema. E’ un’analisi lucidissima sulla mafia e sui rapporti tra la stessa mafia, la borghesia siciliana e la politica. Molti – soprattutto quelli che non l’hanno letta – riducono la relazione di La Torre a una denuncia dei politici, per lo più democristiani, collusi con la mafia. Sbagliano.

 

La relazione di minoranza all’Antimafia: il coraggio di Pio La Torre
Il pezzo forte di questa relazione di minoranza è, lo ripetiamo, l’analisi, in chiaro-scuro, della borghesia mafiosa. Di Palermo, soprattutto. In questa relazione c’è già l’intuizione che La Torre svilupperà nei quattro anni successivi: l’idea che, oltre a individuare le persone coinvolte in quella che poi si chiamerà associazione di tipo mafioso denominata ‘cosa nostra’, bisogna individuare e colpire i patrimoni degli stessi mafiosi. Con il sequestro e, soprattutto, con la confisca dei beni.

Anche se questo non c’è scritto, La Torre è il primo dirigente politico che lascia capire che la mafia, quella vera, non la troviamo solo nel penale: la troviamo anche – e in certi casi soprattutto – nel civile (e oggi anche nel diritto fallimentare e nell’amministrativo).

Una delle chiavi del delitto La Torre – e questo è un nostro giudizio – è in questa relazione e nel tentativo che lo stesso dirigente del Pci porta avanti in Parlamento per arrivare alla confisca dei beni ai mafiosi. Oggi è quasi normale parlare di beni confiscati agli uomini di ‘cosa nostra’. Ma quando La Torre, tra la fine degli anni ‘70 e i primi anni ‘80, lancia questa proposta, non ne parla nessuno. Lo fa lui, perché è veramente un uomo politico coraggioso. E si espone.

La Torre era un dirigente dell’ala riformista del Pci, la cosiddetta destra’ del partito. Tant’è vero che, quando torna in Sicilia da segretario regionale – siamo, grosso modo a metà 1981 – i ‘movimentisti’ del Pci siciliano lo fischiano (gli ‘intelligenti’ in questa area politica non sono mai mancati: ieri nel Pci, oggi nel Pd).

La Torre, tornato in Sicilia, si muove su tre fronti: il movimento pacifista, il rinnovamento del Pci siciliano che la gestione di Achille Occhetto ha incanalato nelle peggiori logiche consociative, e la lotta alla mafia (nella foto a sinistra, tratta da piolatorre.it, una manifestazione a Comiso).

 

L’antimafia concreta
La Torre si batte contro l’installazione dei missili americani a Comiso. Trova una sponda nella parte del Psi vicina all’allora presidente dell’Ars, Salvatore Lauricella (già allora ‘distinto e distante’ da Bettino Craxi). E getta un ponte verso il mondo cattolico. Da grande dirigente di partito e profondo conoscitore della Sicilia, crea un fronte unico che lega pacifismo e lotta alla mafia. Provando anche a ‘sfilare’ un pezzo importante del mondo cattolico alla Dc.

Per la mafia, il ‘movimentismo’ politico di La Torre è un segnale bruttissimo. Una mafia che, nella società siciliana di quegli anni, è in quel momento alle prese con una sanguinosa ‘guerra’ interna. Ma non è certo così distratta – con riferimento soprattutto alla borghesia mafiosa – da non capire i ‘pericoli’ rappresentati dalla presenza, in Sicilia, di un dirigente comunista che sta mettendo di discussione il ‘consociativismo’ del Pci siciliano: di quegli anni: un ‘consociativismo’ all’ombra del quale operava – indisturbata – la stessa mafia.

La Torre inizia a fare pulizia anche all’interno del suo partito. E qui ha meno fortuna. Perché si trova davanti a uno sbarramento. Tutti i personaggi che, fino ad allora, erano abituati a un certo tipo di ‘affari’ nel nome della ‘Solidarietà autonomista’ (vedi accordi di fine legislatura e simili tra Dc e Pci), gli si rivoltano contro.

A mettergli i bastoni tra le ruote – all’interno del Pci siciliano di quegli anni – non sono i riformisti (che tra l’altro erano i suoi amici), ma quelli di altre ‘anime’ del partito.

 

Il palazzo dei congressi della Regione: i “grandi corruttori”
La Torre è un rullo compressore. Mette in discussione tutto: le leggi di spesa ‘spartitorie’ dell’Ars e le operazioni ‘cementizie’. Come l’incredibile storia del palazzo dei congressi della Regione. Una vicenda che La Torre intercetta e cerca di bloccare (anni dopo verranno fuori responsabilità pesantissime dei comunisti, compresa una tangente da circa 300 milioni di lire: La Torre aveva visto giusto, tant’è vero che aveva parlato di “grandi corruttori”).

 

Le truffe ai centri Aima
La Torre mette anche in discussione un accordo tacito tra le forze politiche e sociali siciliane di quegli anni. Ossia le truffe ai centri Aima. In quegli anni gli agrumi si portavano in questi centri – detti dello ‘scafazzo’ – dove venivano ammassati distrutti per conto della Cee (Comunità economica europea). Che corrispondeva una carta somma per ogni chilogrammo di agrumi conferito (prezzo di ritiro). Era un modo, un po’ folle, per ridurre l’offerta di agrumi che avrebbe fatto cadere verticalmente i pezzi.

Si raccontava che in questi centri entrava di tutto: agrumi e anche sassi. Tutto veniva ‘pesato’ nelle grandi bilance. E le Cee pagava. C’erano i centri Aima controllati dalla Dc (e dalle organizzazioni vicine alla Dc); c’erano i centri Aima di area socalista; c’erano quelli di area Pci e, in alcuni casi, venivano ‘garantiti’ anche i partiti laici. Per intendersi, insomma, era una spartizione tipo i corsi di formazione professionale: tanto a me, tanto a te. Gli unici che non erano dentro questo sistema erano i missini, perché fuori dall’Arco Costituzionale. Per il resto, c’erano tutti.

Tranne La Torre. Che si accorge subito del mangia-mangia che si è creato con i centri Aima. E cerca, in primo luogo, di tirare fuori il suo partito da questa grande ‘greppia’. Sempre per la cronaca, la Lega siciliana delle cooperative, in questa storia dei centri Aima, era coinvolta solo di striscio, e solo perché c’era qualche cooperativa che conferiva gli agrumi qua e là. A gestire queste operazioni erano le associazioni dei produttori.

Riassmendo, la mafia aveva tanti motivi per ammazzare La Torre. Era infastidita dal grande fronte contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso: un grande movimento di popolo che era diventato, contemporaneamente, un fronte antimafia. Ed era infastidita, molto infastidita, dal ‘casino’ che La Torre aveva scatenato sui centri Aima: perché solo un cretino può pensare che la mafia vedesse passare centinaia di miliardi di vecchie lire dai centri Aima senza ‘bagnare il becco’ imponendo il ‘pizzo’ sul grande affare (per la cronaca, morto La Torre, i centri Aima continueranno ad operare indisturbati sino alla fine degli anni ‘80).

 

“Questa volta li ammazzo”
Due testimonianze. La mattina in cui ammazzano Pio La Torre un dirigente del Pci esce dalla sua stanza della vecchia sede di Palermo, in Corso Calatafimi, con una pistola in pugno gridando: “Questa volta li ammazzo”. Questo dirigente si chiama Nino Mannino,(nella foto a sinistra tratta da piolatorre.it) ed è stato più volte parlamentare nazionale del Pci e dirigente a Palermo. Questo particolare lo racconta in un’intervista – mai smentita – che il professore Alessandro Musco, docente universitario di storia della filosofia medievale e già consulente dell’ex presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi, rilascia nel 1997 al quindicinale l’inchiesta Sicilia diretto da chi scrive. A chi avrebbe voluto sparare Nino Mannino?

 

“Se gli altri parlano, parlo pure io”
Seconda testimonianza. Michelangelo Russo, altro importante dirigente del Pci siciliano degli anni ‘70 e ‘80 – in un’intervista rilasciata sempre al sottoscritto – e sempre al quindicinale l’inchesta Sicilia – pronuncia sostanzialemente le seguenti parole: se tutti i miei compagni di partito sono disposti a racccontare quello che sanno sul delitto La Torre, anche io sono pronto a raccontare quello che so.

Ovviamente, i suoi compagni di partito non hanno mai raccontato nulla. E qui sta il parallellismo tra i silenzi sui rapporti tra separatismo non proprio cristiallino e sinistra e delitto La Torre. Con i due elementi comuni: la mafia e la reticenza.

 

La ‘pista interna’ (per fregare i riformisti)

Ultima notazione: la ‘pista interna’. Questa è una brutta storia. Che La Torre abbia trovato resistenze all’interno del suo partito lo abbiamo scritto pure noi. Altra e ben diversa cosa è una ‘pista interna’ per come è stata presentata. Quasi che alcuni dirigenti del Pci si siano messi d’accordo con i mafiosi per ammazzare La Torre. Tutto questo non è vero. E diventa addirittura impossibile se questi presunti comunisti ‘traditori’ dovrebbero essere ricercati tra i riformisti del Pci, che allora, in termini spregiativi, venivano definiti ‘miglioristi’. Questo perché lo stesso La Torre, come già ricordato, era un riformista.

Non proprio eleganti e senza scrupoli sono stati quei dirigenti del Pci che hanno provato a utilizzare questo schema per indebolire l’ala riformista del Pci che, negli anni successivi all’omicidio La Torre, non voleva a tutti i costi la rottura con il Psi di Craxi. Usare la vicenda La Torre per lotte interne e meschine è stato un errore. E, di fatto, anche un depistaggio, quanto meno politico.

Semmai, le responsabilità – politiche – andrebbero ricercate tra chi, in quegli anni, in tutta la politica siciliana, davanti alle manifestazioni popolari contro i missili e contro la mafia – o nella battaglia contro la gestione dei centri Aima – si limitava a scuotere la testa dicendo: “Noi non ci possiamo fare niente, c’è Pio…”.

Un atteggiamento simile, insomma, a quello di alcuni sostituti procuratori che, un giorno, alla fine della riunione, nel commentare i provvedimenti draconiani contro una banda di briganti adottati, in solitudine, dal loro capo, dissero: “Noi? Per carità, noi non non eravamo d’accordo…”.

 

 

 

 

Giulio Ambrosetti

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