Da Palermo alla Siria per regalare sorrisi La storia di un clown nei campi profughi

«La mia, in fondo, è una storia semplice». La definisce così la sua esperienza nel mondo del volontariato Marco Lupica Spagnolo, animatore di mestiere e clown nel tempo libero. «Io e altri clown ci siamo incontrati dopo la strage dei 366 morti a Lampedusa», racconta riferendosi al naufragio del 3 ottobre 2013, momento che segnerà l’inizio della sua esperienza di volontariato nei campi profughi. Esperienza che, soprattutto, lo porterà non solo a conoscere l’associazione umanitaria Terraferma Clown – clown senza confini, con la quale collabora, ma anche le realtà dei campi italiani ed europei, come quelli in Francia, in Grecia, a Idomeni e in Turchia, luogo quest’ultimo in cui si è appoggiato all’associazione Support of syrian children, che lo ha sostenuto economicamente. «Sono un animatore di professione, ma in realtà continuo anche nel tempo libero. Con questo lavoro mi rivolgo a tutti, perché se vuoi contribuire all’integrazione devi rivolgerti a tutti. Facciamo animazione a 360 gradi e quella rivolta ai bambini è la parte più importante, perché sono le persone più colpite da questa guerra».

Le reazioni che raccoglie di campo in campo sono sempre bellissime, la gente sorride solo vedendoli vestiti in maniera particolare e colorata. «Ci vogliono tutti bene anche se non ci conoscono – racconta – e poi ci ringraziano, questa è una cosa che mi mette i brividi. Queste persone ci regalano tantissimo e ci fanno comprendere come quella dei campi sia una realtà in cui il volontariato è molto sentito». La decisione di intraprendere questo tipo di vita, costantemente dedita agli altri, è nata moltissimi anni fa, una scelta che Marco riconferma giorno dopo giorno. Il suo ultimo viaggio lo ha visto arrivare pedalando sino alla Turchia: «Sono partito da Palermo in bicicletta e poi, a bordo di una nave, sono giunto fino a Datça. Ho impiegato un mese e una settimana», racconta Marco, che ha già in cantiere l’idea per il prossimo viaggio, previsto per l’estate prossima: quello in Siria.

Viaggio per il quale si appoggerà a un’associazione umanitaria siriana, Bridge of peace Siria, che aiuta i profughi presenti sul territorio. «All’inizio di avventure del genere ci si sente un po’ spaesati, poi viene tutto da sé», dice il ragazzo. Ma a precedere ogni viaggio c’è una sorta di fase informativa: «Sulla Siria mi sono documentato chiedendo ai rifugiati e alle persone che ho incontrato in Grecia: tutti sono dell’idea che lì si stia combattendo una guerra tutti contro tutti, non si capisce più chi è il buono e chi è il cattivo – racconta – proprio un siriano mi ha detto che se non si uccide il nemico di qualcuno, allora diventi tu stesso un nemico».

Racconti, questi, che inevitabilmente spaventano: «Ho paura, ma me ne fa molta di più il fatto che la gente non parli di questi fatti che però ci riguardano molto da vicino». Il racconto di Marco prende improvvisamente una piega diversa e il giovane si fa pessimista: «Non riesco a vedere una fine per questa guerra. Ma quello che mi infastidisce di più è l’atteggiamento dell’italiano medio, che rifiuta questa realtà. Dovremmo mobilitarci, soprattutto noi siciliani. Ma nessuno crede più nelle rivolte, specie quelle mentali».

Quella di Marco è un’analisi lucida e drammatica del presente: «La foto di Aylan morto sulla spiaggia avrebbe dovuto innescare la reazione del mondo intero, che però non c’è stata perché quello non era un bambino nostro – dice riferendosi al bimbo di tre anni fotografato a Bodrum l’anno scorso -. Stiamo diventando sempre più razzisti e nazionalisti, sta tornando in auge il fascismo. E in tutto questo i media non fanno nulla per smorzare, anzi istigano, si vede persino dai termini che usano, da quelle etichette che non significano nulla e che snaturano le persone, che diventano solo immigrato, clandestino, rifugiato politico, non sono più Althair, Thamer e Mustafà».

Secondo il volontario l’uomo è un essere migrante per definizione, la sua storia lo dimostrerebbe: «L’uomo deve poter viaggiare e andare dove gli pare. Basterebbe concretizzare dei controlli seri. Io non ho risposte né conclusioni effettive, ma sono convinto che parlare di queste cose sia un bene», dice ancora. Non tentenna neppure quando spiega le ragioni del suo stile di vita: «Riesco a farlo intanto perché le facce che mi ritrovo davanti non sono mai tristi: quando noi clown arriviamo è sempre una festa. E poi perché ognuno mi lascia sempre qualcosa che riesce a farmi andare avanti, che mi carica. Dopo torno a casa e piango, certo, ma poi ricomincio, perché comunque loro stanno peggio di noi, quindi il lusso di piangere e non farcela non ce lo dobbiamo permettere».

Silvia Buffa

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