Crowdsourcing: la lotteria della creatività

“Migliaia di collaboratori, nessuno stipendio”, per metterla come piace alle aziende. Vetrina globale e inedita per il proprio talento, secondo l’ottimismo della volontà della forza lavoro. Il crowdsourcing è il sogno realizzato dell'”intelligenza collettiva” e l’incubo in carne e ossa dei sindacati. Sintesi di crowd (folla) e outsourcing (la pratica di affidare all’esterno alcune attività) si realizza “quando una compagnia chiede a una comunità indistinta di svolgere per suo conto un compito prima affidato ai propri dipendenti”, secondo il fortunato conio di un giornalista di Wired.
 
Il disegno di una maglietta, la soluzione di un problema chimico o fisico, la videocronaca di un evento: tutto può essere dato fuori, appaltato a masse di volenterosi che hanno le capacità e la voglia di fare. Che si trovino fisicamente a un caseggiato di distanza o a 15 ore di aereo cambia poco o niente. Basta avere un accesso veloce alla rete, il “datore” risparmia una scrivania (e una vera busta paga) e il lavoratore il traffico quotidiano e colleghi non sempre entusiasmanti.
 
Una win-win situation, come i suoi surriscaldati apologeti la raccontano, dove entrambe le parti hanno solo da guadagnare. Il vero, ipercompetitivo, iperprecario volto del lavoro che verrà, secondo altri. Di certo la novità si diffonde assai più velocemente dell’influenza aviaria. Ogni settimana la lista si aggiorna di un nuovo settore coinvolto.
 
iStock, ad esempio, è un sito che raccoglie oltre 10 milioni di foto di repertorio scattate da amatori. Il tariffario varia da 1 a 5 dollari l’una contro i 100-150 che chiederebbe in media un professionista. Il signor Rossi diventa d’incanto Cartier Bresson? No, ma in molte situazioni il rapporto qualità-prezzo va a vantaggio del primo.
 
Al punto che la Getty Images, il più grande archivio commerciale del mondo, ha comprato il sito per 50 milioni di dollari. “Se qualcuno deve cannibalizzare il tuo business – ha dichiarato a Wired l’amministratore delegato – tanto vale che sia una delle tue società”.
Passando alle immagini in movimento, la tv si rifornisce sempre più di contributi dilettanteschi. YouTube e CurrentTv sono solo i casi più eclatanti. Chi crede di aver qualcosa di interessante lo spedisce, i responsabili del palinsesto lo vagliano e se decidono di mandare il filmato in onda lo pagano qualche centinaio di dollari.
 
Ma anche aziende più tradizionali sperimentano l’esternalizzazione di creatività. La Chevrolet, per dire, ha indetto un concorso per realizzare uno spot per la sua Tahoe, mettendo a disposizione gli strumenti tecnici a chiunque. E nonostante che alcuni video fossero molto critici, l’azienda non li ha censurati.  Se le attività che riguardano prodotti digitali, immateriali, restano la maggioranza, crescono quelle dove si maneggiano cose tangibili. Threadless. com è il caso di scuola.
 
Una comunità di appassionati di t-shirt dove ognuno sottopone il suo disegno e i più votati finiscono sulle magliette. Doppio vantaggio: gli autori guadagnano 2000 dollari e la compagnia è sicura che venderanno bene perché il pubblico si è già espresso favorevolmente. John Fluevog Shoes applica un metodo analogo alle scarpe ma la ricompensa è solo morale: “Chiameremo il modello con il tuo nome” assicura il sito. Quindici minuti di celebrità ai piedi di qualcun altro.
 
Alzando la posta intellettuale dell’invenzione si incrocia InnoCentive. In questa banca dati di circa 90 mila ricercatori delle materie più diverse aziende come Procter&Gamble, Boeing e la farmaceutica Eli Lilly lasciano quesiti tecnici molto complessi. Chi riesce a risolverli – la media di
successi è del 30% – può guadagnare da 10 a 100 mila dollari. Una manna per chi lo fa di secondo lavoro, bruscolini rispetto all’impegno di una divisione di ricerca e sviluppo interna. Anche la svedese Lego, da qualche tempo, ha invitato gli appassionati a proporre nuovi giochi promettendo di realizzare i migliori e la risposta è stata sorprendente.
 
C’è un sacco di gente che indossa vite di taglie e fogge sbagliate, giacimenti di genio inutilizzati pronti a sprizzare se solo qualcuno li sondasse. La scommessa del crowdsourcing è questa: diventare un palcoscenico per chi si era arreso a star seduto in platea. Se il prezzo del biglietto è ingiusto, mal ripartito, si può discutere.
 
[Pubblicato su “La Repubblica” del 17 luglio 2006 col titolo Le aziende e i creativi low cost, migliaia di collaboratori via web]

riccardostagliano

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