Cristiano De André, sulla sua cattiva strada

Sale sul palco senza dire una parola e affida l’apertura al “loro” (suo e del padre) dialetto, il genovese, con “Mégu Megùn” e “‘A Cimma”. Saluta un pubblico entusiasta a cui spiega subito cosa lo abbia spinto a tornare ad esibirsi: «Non ero ancora pronto a cantare le canzoni di mio padre. Ci ho messo un po’ di tempo a decantare il dolore. Ma ogni sofferenza passa e adesso sono pronto».

Cristiano De André vuole dare una sua impronta a questo lavoro – come egli stesso afferma – e, con l’aiuto di Luciano Luisi, rivisita i brani del padre con arrangiamenti che spesso assumono tinte rock. Il concerto prosegue con “Ho visto Nina volare” e “Don Raffaè”.
Poi, l’unica canzone che scrisse con il padre: “Cose che dimentico”. Racconta di aver fatto ascoltare a Fabrizio De André, una sera a cena, una musica che aveva in mente. Dopo qualche ora, alle 5 del mattino, lui lo chiamò e gli disse di raggiungerlo. A quella musica aveva affidato il racconto e la memoria di un poeta gallurese suo amico, morto di aids: “Un amore che vorrei, un amore che non cerco perché poi lo perderei”.

Da questo punto è tutto un alternarsi di ricordi, aneddoti e canzoni.
Scoppia il consenso quando Cristiano libera dall’ombra della censura “Se ti tagliassero a pezzetti”, canzone che ha come soggetto e protagonista la libertà. Chi tra il pubblico ricorda i live di Fabrizio si compiace del suo cantare orgoglioso “signora libertà, signorina anarchia” e non “signorina fantasia”, come gli era stato imposto.
«Mio padre era un anarchico, una persona che credeva nella poesia e nell’utopia. Forse, mai come in questo momento, anche io preferisco credere in ciò che non esiste», commenta Cristiano.
È la volta di “Amico fragile”, canzone che Cristiano dichiara di sentire molto intimamente e che in molti ritengono la vera autobiografia di Faber. Continua ad esibirsi accompagnato dai sui musicisti (Osvaldo Di Dio alle chitarre, Davide De Vito alla batteria e Davide Pezzini al basso), scegliendo quelle canzoni che – dice – fanno parte del suo passato, perché le ha viste scrivere: “Creuza de ma’”, “Andrea”, “La cattiva strada”, “La canzone di Marinella”, “Un giudice”, “Quello che non ho”, “Bocca di Rosa”.

E’ solo il pianoforte ad accompagnarlo in “Verranno a chiederti del nostro amore”. Brano quasi sussurrato e, anche se le luci tenui lasciano intravedere solo i tasti, l’emozione è percepibile. L’applauso si fa per la prima volta scrosciante, quando è l’intero teatro a dire insieme a lui “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai”.
Questa partecipazione lo porta a regalare al pubblico un ricordo molto intimo: «Ero un bambino quando mio padre, una notte, scrisse questa canzone. Scesi dal letto e, da dietro la porta, lo vidi al pianoforte, cantare a mia madre le parole che aveva appena scritto. Era proprio “Verranno a chiederti del nostro amore”».
Cristiano dimostra la sua abilità da polistrumentista e alla chitarra alterna il violino, il pianoforte, le tastiere e il bouzouiki. La regia è ancora una volta curata da Pepi Morgia, come in tutti gli spettacoli di Fabrizio.

Non ci sono carte e tarocchi a fare da cornice al palco, come nell’ultima tournée del padre nel ’98, ma la penombra continua ad accompagnare parole e musica. I sentimenti sono ambivalenti. Quel buio tanto voluto da Fabrizio, che temeva le esibizioni in pubblico, è lo stesso che ci riporta indietro nel tempo, aiutati da una fisionomia e da una voce calda che ricordano chi queste canzoni le ha scritte.
C’è anche chi storce il naso perché teme di essere solo lo spettatore di una grande operazione commerciale.
E in effetti, non sembra lontano il rischio di una mercificazione di poesia ed emozioni, come dimostrano le mostre allestite ogni qualvolta si presenti l’occasione di una commemorazione, e i mille libri pubblicati da chi ha qualcosa da dire su Fabrizio De André.
Ma se si abbandona il cinismo, si riesce anche a credere che Cristiano sia «l’unico testimone delle canzoni di mio padre».
Solo testimone, ma non unico erede di versi che non hanno tempo. Chiude il concerto, più volte incitato a tornare sul palco, con “La canzone dell’amore perduto”.
E la standing ovation è quasi scontato che voglia arrivare un po’ più su.

Flavia Musumeci

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