«L’impunità è stata la cifra di questa città e l’orgoglio di mafia e poteri vari. Ma attraverso le sollecitazioni ci ricordiamo di ritornare, di raccontare». È sulla scia di questa frase del giornalista Salvo Palazzolo che oggi si è parlato di scene del crimine, sopralluoghi e lavoro della polizia scientifica nella sede palermitana della casa editrice Dario Flaccovio, in via Garcia Lorca. A reggere le fila del discorso, moderato dal cronista di Repubblica, la dottoressa Paola Di Simone, nella scientifica da quindici anni e membro del laboratorio di genetica forense come esperta di Dna.
«Sono stata tra i primi a entrare nel covo di Bernardo Provenzano, quell’11 aprile 2006. L’ho visto, perciò, così com’era, come lo aveva lasciato: con le macchine da scrivere che utilizzava per comunicare, con i suoi vestiti comprati da poco e le sue cose, poche, tutte lì», racconta l’esperta. «Fu interessante trovare quegli oggetti, che raccontavano di tutte le sue manie, delle sue ossessioni – spiega -. Un lavoro che andò anche al di là dei profili genetici». È osservando questa scena che lei e i colleghi scoprono, per esempio, lo pseudonimo usato dal padrino latitante per operarsi alla prostata in segreto a Marsiglia, Gaspare Troìa. Un dettaglio che ha innescato accertamenti paralleli in questa direzione. Un’indagine a 360 gradi per ricostruire soprattutto la rete di collaboratori durante la sua latitanza.
«Attraverso quegli oggetti fu possibile fare una sorta di ritratto di Provenzano e capire, per esempio, che quello era un punto di appoggio per lui, di passaggio insomma, non il covo vero e proprio in cui restava per lungo tempo». Ma da quegli anni a oggi, in fatto di comunicazione col mondo esterno da parte della criminalità organizzata, non è cambiato poi molto, a sentire la dottoressa Di Simone. «Ancora oggi la mafia comunica spesso con metodi tradizionali come gli scritti, perché i passi avanti in fatto di tecnologia rischierebbero di ricondurre a loro in fase di indagine, di lasciare con più facilità degli indizi. I pizzini invece permettono ancora di eludere certi controlli, grazie anche a una fitta cerchia di collaboratori e aiutanti».
Tuttavia, la dottoressa è ottimista e le sue parole sono rassicuranti. «Non esistono delitti perfetti, ma solo indagini imperfette». Indagini a volte fuorviate dalle circostanze, come quando gli esperti della scientifica si ritrovano a dover intervenire con i rilievi su scene del crimine inquinate, non immacolate. Quelle, cioè, attraversate in lungo e in largo anche da non addetti ai lavori prima del loro arrivo e che compromettono in qualche modo la genuinità del sopralluogo. Un’attività, in ogni caso, che per Di Simone non si esaurisce fra provette e guanti. «Quando si fa un’attività di supporto di questo tipo, specie nei casi di omicidio, la sensazione da parte mia è di entrare di prepotenza nella vita di quella persona – rivela con trasporto – e questo mi suscita sempre fortissime emozioni, nel bene e nel male. Trovare e repertare tracce e indizi ci pone di fronte agli ultimi momenti vissuti da una persona e soprattutto di fronte a come li ha vissuti, quegli ultimi momenti. Gli indizi servono proprio a questo, a raccontare».
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