Cosa fare per avere giustizia

Abbiamo chiesto all’avvocato civilista Salvatore Ferrara*, considerato uno dei massimi esperti in Italia in materia di risarcimento danni in caso di lesioni provocate dall’amianto nell’esercizio delle attività lavorative, di chiarire ai nostri lettori i termini di una questione molto delicata.

Nel caso di accertate lesioni provocate dall’amianto nell’esercizio dell’attività lavorativa il primo aspetto da approfondire attiene al concreto assolvimento, da parte del datore di lavoro, della posizione di garanzia che sullo stesso grava.

Detta posizione di garanzia si fonda su norme di carattere generale come l’art. 2043 c.c. che codifica il principio del neminem leadere e più specificamente sull’art. 2087 c.c. che definisce l’obbligazione di sicurezza a carico del datore di lavoro; talvolta l’individuazione della posizione di garanzia viene affidata alla cd. normazione secondaria che spesso prevede degli obblighi specifici.

Nella fattispecie del danno da amianto può venire in rilievo la mancata adozione di adeguate misure di sicurezza (sistema di aspirazione efficiente, il controllo sull’uso delle mascherine, il contatto diretto con l’amianto da parte de lavoratori) con conseguente esposizione del lavoratore agli effetti cancerogeni delle fibre di amianto disperse, sotto forma di polvere sottile, nell’ambiente di lavoro.

A fronte di una significativa nocività occorre accertare in concreto se i lavoratori fossero o meno provvisti di dispositivi di protezione individuali od ancora se fossero stati resi edotti sui gravi rischi che correvano.

La pericolosità delle polveri di amianto è nota da oltre un secolo facendone menzione, in particolare, già il Rd 14 giugno 1909 n. 442 (in tema di lavori ritenuti insalubri per donne e fanciulli), con successivo inserimento, con la legge 12 aprile 1943 n. 455, dell’asbestosi, ossia della più conosciuta malattia conseguente all’inalazione dell’amianto, nell’elenco delle malattie professionali.

In questa prospettiva, l’obbligo per il titolare della posizione di garanzia di attivarsi per l’eliminazione o la riduzione del rischio potrebbe farsi risalire, anche in via specifica, già su quanto disposto dall’articolo 21 del Dpr 19 marzo 1956 n. 303 (concernente l’obbligo, per il datore di lavoro, di adottare i provvedimenti atti ad impedire o ridurre lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell’ambiente di lavoro) e dagli articoli 377 e 387 del Dpr 27 aprile 1955 n. 547 (concernenti i mezzi personali di protezione e la protezione contro le inalazioni pericolose di polveri).

Il complesso normativo da cui si evince l’obbligo di protezione si è ulteriormente arricchito in epoca successiva, a seguito del decreto legislativo 15 agosto 1991 n. 277, che ha dato attuazione a varie direttive Cee in tema di protezione dei lavoratori dalle esposizioni nocive (decreto espressamente abrogato dall’articolo 304 del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, che ha disciplinato negli articoli da 246 a 261 la materia dell’esposizione alle fibre di amianto), e a seguito della successiva legge 27 marzo 1992 n. 257, contenente disposizioni relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto: trattasi, infatti, di disposizioni specificamente dettate per limitare o vietare l’uso dell’amianto, imponendo, comunque, per tutte le attività ove tale materiale sia ancora impiegato ( ad es. quelle di manutenzione, rimozione e smaltimento) l’uso dei mezzi individuali di protezione.

A tale aspetto può ricollegarsi anche una responsabilità per rischio di impresa ai sensi dell’art. 2050 c.c.. attesa la conclamata pericolosità dell’amianto, quale mezzo adoperato nello svolgimento dell’attività.

In secondo luogo occorre accertare il nesso causale tra la patologia accusata dal lavoratore e l’esposizione all’amianto, pressocché certo in caso di asbestosi pleurica, malattia firmata dall’amianto.

In caso di morte o di patologia particolarmente invalidante per il lavoratore viene in rilievo il c.d. danno riflesso a carico dei congiunti della vittima (c.d. danno parentale).

La pretesa degli attori al risarcimento del danno non patrimoniale rappresentato dalla perdita del rapporto parentale trae fondamento dagli artt. 2, 29 e 30 della Carta Costituzionale. Il vulnus subito dagli stessi si concreta, infatti, “nella lesione dell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, all’inviolabilità della libera esplicazione della attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della formazione sociale famiglia”#.

Ma tutto ciò andrà accertato all’esito di un processo.

 

* avvocato del Foro di Palermo

Salvatore Ferrara

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