Continua il dibattito su Scienze della Comunicazione

Dopo l’intervista al prof. Mario Morcellini, presidente del coordinamento nazionale dei corsi di SdC (cerca su Step1: Il numero chiuso s’ha da fare! a cura di Antonio Patti), il dibattito su scienze della comunicazione continua con queste breve conversazione con Peppino Ortoleva, di passaggio a Catania per il “Salone del libro di viaggio”. Autore di oltre un centinaio di lavori scientifici su media, storia, società, il professor Ortoleva ha insegnato “Comunicazioni di massa” all’università di Siena ed è attualmente ordinario di “Storia dei media” a Torino.

 

 

L’attenzione che le Università italiane pongono sulla comunicazione e i mass media corrisponde a reali esigenze di mercato o è dettata dalla voglia di assecondare una moda?

Il discorso è delicato, ma cercherò di rispondere, anche se molto velocemente. Per molte Facoltà di Lettere, di Sociologia, ecc., “Scienze della comunicazione” è stata una risposta alla crisi. Si aveva una contrazione fortissima degli iscritti a queste Facoltà – con la riduzione delle assunzioni degli insegnanti, perché di questo si trattava – e a questo punto il dire “se venite a Lettere potete fare scienze per la comunicazione, non diventerete dei professori di italiano, ma dei comunicatori” ha avuto il suo fascino.

 

Ciò ha dato luogo a due deformazioni gravissime: la prima è un fenomeno di moda e la seconda il fatto che molto spesso si è trattato di un’operazione strumentale da parte di Facoltà molto tradizionali. Quindi sostanzialmente si usava il corso di laurea in scienze per la comunicazione per attrarre studenti a Lettere senza però dedicare a questi corsi di laurea né le risorse in termini umani, né le risorse in termini strutturali adeguate. Tale situazione varia molto da città a città, da università ad università, ma sicuramente ci sono stati casi scandalosi. E a quanto mi risulta quello di Catania è uno dei più scandalosi, detto molto francamente.

 

Questo non significa naturalmente che si risolva il problema chiudendo scienze per la comunicazione. Significa che si dovrebbero dare più risorse. Lei ha parlato di comunicazione e di media: io su questo starei molto attento, perché di comunicazione se ne parla tanto, di media francamente quasi per nulla. Per essere più chiaro, i corsi di laurea di scienze della comunicazione, in molti casi sono corsi di Lettere mascherati. In molti casi non sono corsi di laurea mascherati, ma corsi di sociologia e di semiotica. Solo molto di rado sono corsi di media. Attenzione: quando dico corsi di media, non voglio dire corsi che insegnano a fare la trasmissione radiofonica, perché non è questo il compito dell’Università. Quando dico corsi di media intendo corsi che insegnino a conoscere bene un medium, non necessariamente nel senso di praticarlo a livello di artigianato – cosa che si deve imparare ma che si impara spasso per altre vie – bensì nel senso di conoscere i mezzi della comunicazione. Su questo l’Università italiana è praticamente inesistente.

 

Quale dovrebbe essere, secondo Lei, il giusto mix tra nozioni “sugli strumenti” e quelli che sono invece i contenuti, una base culturale che supporti queste conoscenze tecniche?

Io non accetto la divisione tra conoscenze tecniche e conoscenze sui contenuti. Non l’accetto per diversi motivi: intanto perché l’idea secondo cui la tecnologia è una cosa e i contenuti e la società sono un’altra è un’idea profondamente fragile dal punto di vista teorico, e sottolineo teorico. In secondo luogo perché la conoscenza dei mezzi, non è una conoscenza puramente tecnica. In terzo luogo perché l’idea che si possano studiare i contenuti in modo separato dagli strumenti che li veicolano è un’idea assolutamente arcaica. A mio vedere si deve imparare a fare teoria e insieme lavoro sui mezzi di comunicazione attraverso forme di educazione che in parte superino la separazione rigida tra tecnologia e cultura che invece è caratteristica del Novecento.

 

E di rigida separazione si parla spesso riferendosi alla costruzione dei corsi di laurea 3+2, dove triennio e biennio sono due cose distinte.

Il 3+2 è stato introdotto negli ultimi anni da una riforma che in Italia è stata accolta in modo riluttante. E quindi applicata in modo spesso pasticciato. A mio vedere il biennio ha una funzione importante di specializzazione. Occorrerebbe poi fare anche dei Master. Anche se “Master” è ormai quasi una parolaccia. Perché ormai chiunque fa Master, e se uno dice “sto facendo un Master” è come se dicesse “sto perdendo tempo in attesa di chissà che cosa.” Mentre si dovrebbe garantire che i Master – o, usiamo anche un termine italiano, i corsi professionalizzanti – siano effettivamente adeguati al profilo professionale che si intende formare.

Andrea Deioma

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