Confindustria Sicilia, industrie cercasi…

E’ vivo il dibattito sulle privatizzazione dei servizi pubblici locali, come se non si fossero celebrati da pochissimo tempo i referendum popolari che hanno dato una risposta netta e definitiva all’argomento. Tuttavia, c’è qualcuno che si ostina sul punto come se la messa in produzione dei territori locali passasse unicamente per questa via, cioè la crisi di crescita dell’economia nazionale, l’innovazione tecnologica e produttiva, l’ampliamento dell’area delle esportazioni, la conquista di nuovi mercati e la competizione globale fossero tutte questioni soggette alla gestione dei rifiuti solidi urbani, alla distribuzione dell’acqua ai cittadini (oltre allo sfruttamento a tappeto di tutte le sorgenti di acque minerali), la distribuzione del gas.
In Sicilia, poi, i più solerti sostenitori di questa teoria economica sono i dirigenti di Confindustria. E qualcuno di loro ci ha anche provato. L’imprenditore Giuseppe Catanzaro da Agrigento, vice presidente di Confindustria Sicilia, ha realizzato questo obiettivo. Ha preso in gestione la discarica pubblica di Siculiana e l’ha fatta propria. Fin qui, se l’accaparramento fosse avvenuto nella trasparenza delle procedure, nulla ‘questio’.
La questione che invece va segnalata e deprecata è dovuta al fatto che l’imprenditore Giuseppe Catanzaro questa concessione l’ha ottenuta denunciando per concussione e per mafia il sindaco di Siculiana allora in carica, Giuseppe Sinaguglia, e il dirigente tecnico, Pasquale Amato, entrambi poi regolarmente assolti dalla magistratura (a seguito di questo evento è stato sciolto anche il consiglio comunale dell’epoca).
Eliminato dal campo l’ostacolo che impediva al Catanzaro di conseguire il suo intento, questo personaggio è riuscito ad ottenere, senza alcuna gara d’appalto pubblica, la gestione della discarica, lucrando 45-50 milioni di euro l’anno dall’Ato rifiuti, applicando tariffe più onerose non per la raccolta differenziata, bensì per la raccolta ‘tout venant’. Non solo. Il gruppo Catanzaro ha lucrato e continua lucrare pure sulla rivendita dei materiali selezionati a seguito della loro separazione dalla massa dei rifiuti raccolti.
Perché abbiamo ripreso questo episodio, peraltro già noto? Per la ragione che lo riteniamo esemplare di un modo di ritenere l’attività imprenditoriale da parte di certi industriali siciliani, meglio se iscritti a Confindustria Sicilia. I quali hanno scoperto una maniera avveniristica di intendere il termine industria.
In qualunque dizionario enciclopedico edito nel mondo intero, il termine “industria” è definito come attività di trasformazione di materie prime in prodotti finiti, cioè pronti al consumo, o semilavorati, cioè pronti ad essere inclusi nel processo di trasformazione e creazione di altri prodotti manifatturieri più complessi. Queste attività nella nomenclatura economica classica sono comprese e catalogate nel settore ‘secondario’. In Sicilia questo termine assume un significato del tutto diverso: attivare depositi di legname, gestire cliniche mediche per ‘produrre’ malati da curare o da operare (meglio se i ‘mezzi di produzione’, cioè i ricoverati sono del secondo tipo), gestire attività turistiche e relativi impianti e un’infinità di altre attività facenti parte del settore che in economia viene definito ‘terziario’, cioè il settore dei servizi.
Di manifatturiero non c’è segno, perché di questa attività, in Sicilia, si occupa una quota minima dell’artigianato di produzione. I nostri industriali, se proprio devono fare impresa, si candidano a gestire servizi pubblici il cui mercato è caratterizzato dalla cosiddetta ‘economia della bolletta’. Proprio quello che fa il vice presidente di Confindustria Sicilia, il già citato Catanzaro. Cioè attività senza rischio di mercato, a ‘ricavo garantito’: o tramite rimborso pubblico, o tramite canone dell’utente. Questa è una delle ragioni di fondo che determinano crescite del prodotto lordo siciliano con indici sempre molto vicini allo zero. Senza valore aggiunto (cioè l’aumento di valore dall’apporto manifatturiero) non ci può essere incremento di prodotto lordo.
Da qui un’amara constatazione: se per un qualsivoglia disgraziato motivo le grandi imprese nazionali a capitale pubblico (Eni, Ferrovie, Enel, Fincantieri, ecc.) o anche a capitale privato (Lukoil, Isab, S.T Microelettronic, ecc.) dovessero, come ha fatto Fiat, dismettere i propri impianti di lavorazione, Confindustria Sicilia potrebbe chiudere i battenti. Di produzioni manifatturiere in competizione di mercato di origine imprenditoriale indigena, a seguito della chiusura del polo tessile di Bronte, non ce n’è quasi più.

 

Riccardo Gueci

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