Sulle bellissime cose culturali finora realizzate a Catania non mi esprimerò, perché non è questo che mi è stato chiesto di fare dagli amici di MeridioNews (che ringrazio di cuore), e anche perché lo sta ampiamente facendo chi è legittimamente responsabile di quei risultati. E soprattutto perché non sono un tuttologo. Sfrutterò invece l’occasione offerta da MeridioNews per dire la mia su quello che ancora c’è da fare nel settore culturale, e cosa diventa sempre più indispensabile per gli anni a venire. Partendo da un dato: i siciliani (e i catanesi tra loro) non partecipano culturalmente. Ce lo attesta Istat in maniera inequivocabile: in Sicilia non visita i musei il 77,7 per cento della popolazione; non visita mostre ed esposizioni d’arte l’80,4 per cento; non visita i siti archeologici e i monumenti l’80,4 per cento; non usa le biblioteche l’89,8 per cento; non assiste a concerti di musica classica il 91,4 per cento e ad altri concerti l’80,2 per cento; non frequenta il teatro il 78,3 per cento; non va al cinema il 48,9 per cento; non assiste a spettacoli sportivi il 76,1 per cento (Istat 2017).
Attenzione: non è mia intenzione giudicare aristocraticamente questi numeri, e consiglio vivamente di resistere alla tentazione di farlo. Propongo un’altra lettura.
Esclusione culturale e povertà educativa
La Sicilia è drammaticamente ai primi posti tra le regioni italiane per Indice di povertà educativa (Ipe), condizione che affligge un minore su tre rendendolo incapace di comprendere il senso di un testo scritto e di svolgere semplici operazioni matematiche. Gli studi sul fenomeno (Save the Children; Con i Bambini) lo ricollegano a condizioni familiari di povertà assoluta (il 18,6 per cento della popolazione siciliana, una famiglia su cinque) o di povertà relativa (una famiglia su due è composta da persone che non riescono a risparmiare o a far fronte a spese impreviste, correndo il rischio di una piena esclusione sociale) ma anche – ed è questo il punto – a una dimensione di privazione ed esclusione culturale. La povertà educativa genera il totale disarmo dei nostri minori, la piena incapacità a comprendere la complessità stratificata e multiforme dei contesti sociali in cui si nasce e si vive, se non attraverso la lente schiacciata del qui e ora, del contingente tra quotidiano ed emergenza, quando essa si manifesta.
Per dirla più semplicemente, la povertà educativa priva i minori di oggi e futuri cittadini della possibilità di comprendere un contratto di lavoro o di affitto, una lettera di sfratto, un programma elettorale, un progetto per il proprio quartiere o una lettera della scuola dei propri figli: insomma, la povertà educativa li priva dell’essere cittadini attivi e consapevoli; li priva del diritto di avere un futuro diverso dal presente. La debolezza della comunità educante, un auspicabile sistema integrato di scuole, istituzioni culturali e sociali e famiglie, contribuisce a produrre tale disarmo, e condanna i bambini e i ragazzi a futuri certi di inconsapevole e inattiva emarginazione.
Le sfide (culturali) di Catania
Povertà assoluta, povertà relativa, povertà educativa; bisogni speciali (anziani, bambini, disabili, famiglie), cittadini nuovi (migranti) o temporanei (studenti, viaggiatori, professionisti): Catania rimane una città ancora piena di fragilità sociali, contraddizioni, diseguaglianze, diritti frustrati, disparità territoriali. È certo che il sistema di welfare sociale è debole e discontinuo (come continuamente denunciato da cittadini e operatori) ma a preoccupare è anche la tenuta sociale delle relazioni tra le persone, sempre più portate a individuare negli ultimi le cause dei propri malesseri.
È qui che il settore culturale deve farsi nuove domande sulle proprie missioni, chiedendosi ad esempio in che modo stia agendo per giocare un ruolo non marginale su quelle fragilità sociali. Un nuovo compito è richiesto, e ce lo chiedono le nostre comunità: si tratta di lavorare a un modello di welfare culturale che sia il frutto di ascolto, co-progettazione civica, azione strategica tra enti pubblici e attori privati, profit e non profit.
Le tre funzioni sociali della cultura
Coloro i quali producono arte e cultura, ne organizzano la fruizione o ne mediano i contenuti, hanno uno straordinario potere, oltre che quello di esprimersi e fare esprimere. Primo: grazie al loro lavoro possono coinvolgere le persone meno abituate a partecipare, o addirittura i non pubblici, coloro i quali a causa delle mille barriere della cultura non partecipano mai (funzione inclusiva). Secondo: possono usare la conoscenza della complicata storia da cui veniamo (testimoniata dalle mille forme delle arti, dell’architettura, della letteratura) per rafforzare la consapevolezza di come siamo oggi, magari per costruire un futuro diverso. Terzo: grazie al coinvolgimento e alla consapevolezza, possono contribuire direttamente o indirettamente al consolidamento dei rapporti sociali delle comunità (funzione coesiva).
Quali obiettivi al 2023, e quali impatti al 2030
Vogliamo quindi concretamente che le attività culturali giochino un ruolo affinché nel 2030 i cittadini possano contare su una Catania diversa, socialmente equa, rispettosa delle diversità culturali, dei diritti umani e sociali, dell’uguaglianza di genere, della cittadinanza globale, come previsto dalla Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile? Sarà allora necessario individuare e fare di tutto per traguardare alcuni obiettivi culturali al 2023, come tappa intermedia di una visione: quell’anno non sarà infatti solo la scadenza naturale dell’amministrazione comunale che il 10 giugno i cittadini incaricheranno di governare per i prossimi cinque anni, ma anche la data prescelta dall’Unione europea e dall’Italia per verificare che strategie come il Pon Metro abbiano davvero sortito gli effetti previsti, in termini di infrastrutture e competenze digitali, mobilità ed energie sostenibili, e inclusione sociale attiva.
Il contributo del settore culturale dovrà basarsi quindi su alcuni assi imprescindibili, come suggerito dalla campagna del network europeo Culture Action Europe (da cui si prende qui liberamente spunto). Ne elencherò alcuni come spunti (non esaustivi) di riflessione aperti al confronto e all’integrazione:
Quanto scritto è solo una traccia del possibile potenziale sociale del comparto culturale catanese, frutto delle riflessioni nate dalla esperienza professionale che ho avuto la fortuna di condurre in questi anni. Non ho parlato di reti museali, di segnaletica smart, di app per la fruizione, di realtà virtuale e aumentata, di orari di apertura, di info-point e di croceristi semplicemente perché questi temi sono ampiamente già presenti nell’agenda di molti se non di tutti gli attori politici in campo. Se mi si chiederà di esprimermi in merito, dico subito che qualche idea l’ho maturata, in questi nove anni di lavoro con lo staff di Officine culturali. Ma invece sento, e sentiamo, il forte bisogno di portare al centro della riflessione un nuovo disegno condiviso e aperto di una missione sociale della cultura e delle sue diverse forme, in cui le comunità e le persone siano sempre più soggetti attivi e consapevoli, e beneficiari di attività, percorsi e processi che davvero, a quel fatidico 2030, possano consentire loro (a tutti noi) un futuro diverso da questo presente. Perché, per dirla con Theodor Adorno, «non si tratta di conservare il passato, ma di realizzare le sue speranze».
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