Cibo, le ricette siciliane raccontano la storia dell’Isola Dalla caponata piatto dei poveri alle fritture degli arabi

Nell’era del politeismo alimentare, caratterizzata da un’estrema variabilità nella scelta dei cibi e dei luoghi di acquisto dei prodotti, il tema del rapporto tra la cucina e l’identità di un popolo è tornato fortemente alla ribalta. Anche la cucina siciliana – testimone dei popoli e delle culture che hanno attraversato l’isola ed erede della ritualità e delle dinamiche che si instaurano a tavola – conserva ancora oggi una dimensione antropologica e un linguaggio capace di comunicare la storia di un popolo. Con Le parole del cibo: lingua e cultura dell’alimentazione a Troina, pubblicato nel 2016 dal centro di studi filologici e linguistici siciliani, Angela Castiglione, linguista dell’università di Catania, porta avanti un minuzioso lavoro sulle tradizioni culinarie del piccolo centro dell’Ennese, e di conseguenza anche su ricette che sono patrimonio comune di tutta l’Isola.

«Se da un lato è riscontrabile una cultura alimentare di fondo che riconosciamo come siciliana, condividendo alimenti come pane e olio – spiega Castiglione – dall’altro emergono le specificità che ritroviamo in ogni singola comunità». Cannola, sfinci, cuddurieddi, caponata e suppissata, solo per citare alcuni esempi, rielaborati in maniera diversa da una parte all’altra della Sicilia, che diventano comunque emblematici per lo studio della lingua e della cultura siciliana. «La classica frittura che avvolge il cannolo – prosegue Castiglione -, che è una tipicità riconosciuta della nostra isola, a Troina viene sostituita da una cialda al forno. Probabilmente è il frutto di una sperimentazione dovuta ai monaci, i quali, avendo la possibilità di viaggiare, facevano da ponte rispetto alle novità gastronomiche che venivano dalla costa. O ancora la sfince che in alcune parti della Sicilia è condita con le acciughe e in altre si presenta come un dolce, ricoperto da zucchero o cannella, fino a diventare crispedda, come avviene a Catania, per essere riempita con ricotta o crema». 

Una varietà di dolci, salati e pietanze della cucina siciliana che riflettono i meccanismi di trasformazione della società, con comportamenti alimentari dettati spesso da fattori economici, storici o sociali. «Un’altra peculiarità che ritroviamo in tutte le comunità è la caponata, perché legata alla gastronomia della fame – prosegue Castiglione -. Questa conserva di ortaggi, zuccherata o in aceto, nasce per sottrarre gli alimenti alla deteriorazione e diventa, per le classi più povere, un modo per contrastare la fame. Anche il pane fritto, i pasticci o la pasta n’caciata, fatta con i rimasugli sono il frutto di elaborazioni e sperimentazioni per riciclare i cibi». 

Una cucina povera che in alcuni casi, per posizione geografica o risorse presenti sul territorio, è stata capace di ispirare anche quella ricca. «I n’fasciatieddi, dolci tipici di Troina – continua la studiosa – fatti con un impasto di farina e strutto e ricoperti da una soluzione di zucchero, cannella e mandorle tostate, contengono all’interno un concentrato di fichi d’india, che viene chiamato vinu cuottu. Anticamente era la fascia popolare che utilizzava il vino cotto, ma la notevole presenza di questo frutto nella zona ha modificato la ricetta originale, sostituendo un elemento legato alla povertà, con qualcosa di molto più pregiato. Un fenomeno – aggiunge – riscontrabile anche in altre parti della Sicilia dove il vino cotto è stato sostituito dalla cioccolata». 

Dal quotidiano fino ai momenti di convivialità, dove ogni alimento diventa componente essenziale per la cultura di un popolo, investendo tutti gli ambiti della vita di ogni individuo. «Anche nei rituali legati alle feste religiose c’è una variazione tra le comunità. I classici dolci di Pasqua, a palumma o palummedda, hanno una doppia versione, con pasta dolce o salata. A Cuddura, che è un altro termine diffuso in tutta la Sicilia, rappresenta referenti diversi, in base al contesto e al periodo in cui si usa. Dalla nota forma di pane, con il classico buco al centro, ai cudduruna (che vuol dire legato al collo o dall’aspetto tondeggiante); dai cuddureddi, i braccialetti di pastella tipici del carnevale, fino alle sfinci, che in arabo vuol dire spugna, ovvero le frittelle importate da questo popolo che era esperto in frittura». 

Testimonianze che, in alcuni casi, dimostrano l’incontro tra diverse civiltà. «La vastedda co sammucu prosegue Castiglione – che è una focaccia esclusivamente troinese, ripiena di salame e formaggio, rappresenta l’elemento di unione tra il pane, tipico dell’alimentazione mediterranea, e la carne, proveniente dalle popolazioni del nord Europa. A questo si aggiunge la particolarità dei fiori di sambuco, usati anche nell’impasto, che non è solo un aroma ma ha un valore simbolico-propiziatorio, da un lato augurale e dall’altro di protezione, sia dell’alimento sia della casa che produce la vastedda. È un unicum nei sistemi alimentari siciliani perché, in precedenza, il sambuco era usato nel campo della medicina. È in ambito germanico che questa pianta permea sia la cultura simbolica che quella alimentare. Troina – conclude Castiglione – è un esempio di sincretismo emblematico, che ha avuto il suo apice nel Medioevo, quando la cultura mediterranea ha incontrato quelle continentali». 

Salvo Caniglia

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