Chiude il Museo del Risorgimento, alias degli Orrori: la replica di Pasquale Hamel

Ieri, il nostro impertinente collaboratore Brasil, nella nostra rubrica long drink, ha dato in maniera del tutto originale, la notizia della chiusura del Museo del Risorgimento di Palermo. Innanzitutto lo ha definito Museo dell’Orrore (potete leggere qui l’articolo). Una definizione perfetta se si considerano le violenze e le vessazioni subite dai meridionali e dai siciliani proprio durante il Risorgimento. Ma il Museo, ci dice Pasquale Hamel (direttore dell’Istituto di Storia Patria, all’interno del quale c’è il museo in questione, ora chiusi entrambi)  è invece una preziosa testimonianza della storia siciliana. Allora, ammesso che lo riaprano, perché non cambiare nome? Intanto, leggiamo la replica di Hamel: 

Siccome, come diceva Goethe, “nulla ? più terribile dell’ignoranza attiva”, intervengo per aprire gli occhi a chi ha definito o definisce il Museo del Risorgimento di Palermo “Museo degli Orrori”. Forse pochi sono a conoscenza, e sicuramente chi  usa una tale definizione è fra questi,  visto che si continuano a ripetere  sciocchezze spacciandole per vere, che il Museo del Risorgimento Vittorio Emanuele Orlando di Palermo, intitolato appunto al maggior giurista italiano di tutti i tempi, oltre ad essere un piccolo scrigno di reperti di grande valore, costituisca anche una sorta di palinsesto della identità siciliana, quella vera e non certamente quella contrabbandata per vera.
Il  Museo ospita,  infatti, reperti che coprono la storia siciliana dell’ottocento a cominciare dalla rivoluzione del 1812 che produsse una delle carte costituzionali più moderne della storia d’Europa e che consacró, in Sicilia, il distacco dalla vecchia concezione della “nazione” , identificata con i baroni, sostituita da una concezione più moderna e politicamente più accettabile. Molti reperti, poi, ricordano un altro momento alto della storia siciliana, quello che riguarda la Rivoluzione del 1820, nel corso della quale la Sicilia rivendicó la propria Costituzione e respinse la sudditanza borbonica che con la “Legge fondamentale del Regno delle due Sicilie” del 1816 aveva cancellato, autoritariamente ed in dispregio alla volontà dei siciliani, il quasi millenario Regno di Sicilia.
Ed ancora, ci sono i reperti della gloriosa rivoluzione del 1848, la prima delle rivoluzioni europee, che inaugurò la cosiddetta “primavera dei popoli”, carica di un coraggioso rivendicazionismo nazionale e sociale che mostrava la raggiunta maturità politica delle nostre genti. Per non parlare, poi, delle memorie e dei reperti della rivolta della Gancia dell’aprile del 1860. Una rivolta, chiaramente antiborbonica che, fra l’altro, dimostrava il grado di penetrazione delle idee di libertà anche fra la gente del popolo e non solo, com’era avvenuto fino ad allora, fra le elite.
E ci sono ancora, i numerosi reperti dell’avventura dei Mille che, nonostante quel che si dice sul complottismo e disfattismo, fu soprattutto agevolata da un moto di popolo, perché, sia chiaro, i Siciliani erano esasperati dal dispotismo borbonico,  odiavano i napoletani e detestavano la monarchia borbonica. Ma ci sono anche reperti che riguardano uno degli episodi più drammatici della vita palermitana, la cosiddetta rivolta del “Sette e mezzo” , quella stessa che, con un superficiale giudizio Lucio Villari, storico in odor massonico,  nel corso delle celebrazioni per il 150* anniversario dell’Unità d’Italia, poco opportunamente, ebbe a definire “rivolta clerico-mafiosa”.
E c’è, infine,  una chicca, la ricostruzione dello studio del maggior poeta siciliano, dell’abate Meli, uomo di grande cultura e di altrettanto grande saggezza. Questo sarebbe, dunque, il museo degli orrori, certamente così definito per ignoranza attiva o, e non vorrei che un tale pensiero dovesse passare nella mente di chi tira fuori una così inopportuna definizione,  indicato in tal modo per disprezzo di quell’identità siciliana di cui il Museo del Risorgimento custodisce pezzi così rilevanti.

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Redazione

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