di Ilaria Fatta
Sarà una questione di indole, sarà culto religioso, sarà superstizione o la solita ironia che ci caratterizza, vero è che il piacere dei siciliani passa sempre e comunque dalla tavola. Una curiosa sintesi di tutti questi caratteri propri del popolo isolano è racchiusa in un dolce tipico del catanese, consumato durante i festeggiamenti in onore della padrona della città, SantAgata. Le minne di vergine sublimano la santità della figura, nonostante a prima vista possano quasi provocare un sorrisetto malizioso sulle labbra dei più.
SantAgata nacque nel III secolo a Catania. Di nobili natali, consacrò la propria vita a Dio e seguendo un richiamo in lei fortissimo fin dalla prima infanzia divenne, giovanissima, diaconessa. Gli anni in cui visse erano difficili per il popolo cristiano, perseguitato e costretto a nascondersi. È in questo clima di violenze che si svolge la sua storia, più esattamente nel 250, anno in cui arrivò in Sicilia Quintiliano – proconsole dell’Imperatore – per far abiurare pubblicamente i cristiani e riportarli al politeismo.
Narra la leggenda che questi si innamorò della giovinetta e che, vistosi rifiutato (forte in lei era il suo credo), decise di sottometterla al suo volere cercando di corrompere il suo spirito affidandola ad una cortigiana che ne correggesse i principi. Falliti questi espedienti Agata venne processata ed incarcerata. Subì l’amputazione delle mammelle ed i carboni ardenti che la portarono alla morte appena due giorni dopo l’ingresso in carcere; era il 5 febbraio 251. (a sinistra, foto tratta da fanpage.it)
Già da allora era amata dai concittadini i quali, appreso il fatto, tentarono di linciare il persecutore e si convertirono in gran numero al cristianesimo. Esattamente un anno dopo la sua morte, una grave eruzione dell’Etna colpì duramente la città di Catania distruggendo uno dopo l’altro i paesini limitrofi. Fu questa la prima volta che i cristiani chiesero aiuto e protezione alla Santa, la quale prontamente bloccò l’avanzata del magma.
Da allora in poi quando il capoluogo viene minacciato da peste ed eruzioni Agatuzza stende il suo velo sulla città che scampa miracolosamente ai pericoli. E tanto amore è contraccambiato dai cittadini, i quali la festeggiano ricordandone sia la cattura, il martirio e la morte (3, 4 e 5 febbraio) che il rientro delle reliquie trafugate a Costantinopoli nel 1040 e restituite alla città dopo 86 anni (17 agosto).
Inizialmente le celebrazioni erano prevalentemente di natura liturgica e ricalcavano la solennità dei festeggiamenti avviati spontaneamente proprio a partire dalla notte del ritorno dei sacri resti: messa, processione ed – in tempi più recenti – giochi pirotecnici. Ma tale e tanta è la devozione per la santa che fino ai nostri giorni si può assistere ad una eccezionale e fortemente sentita partecipazione.
Durante i festeggiamenti invernali un’esplosione di illuminazioni che culminano in un pannello luminoso raffigurante una scena della vita della Santa fa da sfondo a giornaliere processioni ed acchianate per le strade della città, durante le quali i cittadini mostrano la propria devozione con grida e canti; portando in giro per la città ceri votivi (3 febbraio) o annacando (caratteristico movimento oscillatorio caracollante) i cannalori – carri in legno riccamente scolpiti che contengono al loro interno un grosso cereo – e trascinando la vara – struttura d’argento a forma di tempio, riccamente lavorata, che si usa per trasportare in processione il busto raffigurante SantAgata ed uno scrigno d’argento con le reliquie della patrona (4 e 5 febbraio).
A coronamento di ogni trasporto sacro si assiste allo strabiliante spettacolo offerto da una lunghissima sequenza di giochi d’artificio. Tutte le teste gioiose guardano in alto mentre gustano i dolci di festa: quelle famose minne di vergine che per superstizione devono essere sempre di numero pari e che, a pensarci bene, nonostante siano ricoperte di zucchero, lasciano l’amaro in bocca di una violenza diventata motivo di festa.
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