Un regolamento, quello che sarà iniziato stamattina, che mira a dimostrare «che le comunità che occupano gli spazi attivano procedure inclusive di condivisione dei luoghi», strappandoli all’abbandono «spesso imposto dalle amministrazioni pubbliche». Un discorso tanto più valido se affrontato all’interno della Palestra Lupo che, dopo essere stata sgomberata anni fa, è diventata un «progetto di riuso temporaneo di un edificio pubblico abbandonato, dedicato all’esercizio delle culture e delle arti». «Gli spazi destinati alla socialità devono essere considerati delle risorse – continua Amendola – Tanto più se consideriamo che quelli occupati dal basso e dati alla collettività sono, a tutti gli effetti, degli esperimenti di autogoverno».
Il regolamento catanese non sarebbe un discorso a sé. Si inserirebbe, anzi, all’interno di un contesto nazionale: «Ci sono già i due regolamenti di Bologna e Chiari, che aprono una strada. E poi non dimentichiamo che a Napoli in questo senso si è fatto un gran lavoro – prosegue il docente – Forse anche su impulso di una politica che voleva mettere il cappello su questo tema. Però, nel frattempo, ha proseguito su una strada indubbiamente meritoria». Un altro esempio, poi, arriva dalla Capitale: «A Roma c’è l’esperienza del teatro Valle occupato. E, più in generale, ci sono i casi di studio dei collettivi artistici, che sono riusciti a trovare da soli dei modi intelligenti di proliferare». Nel capoluogo etneo c’è già l’esperienza del teatro Coppola, nato – ormai quasi quattro anni fa – sull’onda proprio del Valle romano.
«I regolamenti aprono delle possibilità e dimostrano che la collettività può aiutare le città ad allontanarsi dal deserto di opportunità che le amministrazioni pubbliche spesso creano». E in questo senso Catania, secondo l’esperto, si dimostra vivacissima: «Nelle regioni che si affacciano sul Mediterraneo si nota un certo movimento etico e sociale – afferma Giso Amendola – Credo che si tratti di una risposta ai modelli di sviluppo calati dall’alto. Che però non erano la strada giusta per questi territori. Forse è per questo che qui più che altrove si sente la necessità di sperimentare». E conclude: «Il diritto, in questi casi, è un’arma di resistenza. Ma da solo non basta. Bisogna saperne fare un buon uso e guardarlo in modo laico. Un regolamento dà la possibilità di aprire delle vertenze. Poi, però, lo sviluppo sociale dipende dalle persone».
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