«Catania ripensi Catania»

Questa intervista è la sintesi di un lungo colloquio tra una giovane universitaria con tante domande – pressanti – sul futuro e sul presente dell’occupazione in Sicilia e Franco Garufi, coordinatore del Dipartimento del Mezzogiorno e delle politiche di coesione della Cgil. Riportiamo alla fine del testo il file audio integrale dell’incontro.


Come coordinatore del Dipartimento del Mezzogiorno (Cgil), come vede la crisi industriale al Sud? I settori che ne avvertono di più le conseguenze sono diversi eppure tutti ugualmente coinvolti. Dall’annosa questione della Cesame e della ST microelectronics a Catania, alla Siteco Spa di Priolo (SR), unica azienda ad occuparsi della produzione di torri eoliche in Sicilia, oggi a rischio chiusura così come il gigante Fiat a Termini Imerese. Siamo al collasso?
«Il sistema produttivo del Sud ha subito colpi molto pesanti dalla crisi soprattutto sulla parte più esposta alla concorrenza internazionale. Sia la media impresa manifatturiera che le grandi aziende quali la Fiat sono ciò che resta del vecchio sistema delle partecipazioni di stato sul quale fu costruito il progetto di industrializzazione del Meridione, negli anni ’60-‘70, attorno ad energia, petrolio e acciaieria ma anche e soprattutto attività innovative di componentistica e microelettronica come nel caso della STM. Si tratta adesso di settori maturi. Ciò che ha determinato il collasso industriale degli ultimi anni, oltre la crisi generale dell’economia, è la mancanza totale di una seria politica industriale nazionale».

Secondo lei, da cosa bisogna partire per risollevare l’imprenditoria locale?
«Premesso che da una situazione simile è molto difficile uscirne perché sono già stati fatti molti danni, occorre ricostruire le condizioni di una politica industriale che riesca a legare il consolidamento e la salvaguardia delle imprese esistenti ad una forte accelerazione della ricerca e dell’innovazione che, a sua volta, leghi il sistema industriale al territorio. Questa è, a mio avviso, la scommessa del futuro, una scommessa che richiede però tre condizioni: una grande svolta della politica industriale da parte del governo nazionale supportata da politiche coerenti delle regioni; un investimento nel sistema della ricerca pubblica e privata e in ultimo una prospettiva di lavoro vero per i giovani del Meridione».

Ma quali prospettive di lavoro possono avere giovani come me che, sempre più spesso seppur laureati, annaspano tra impieghi part time entrando ed uscendo da un call center all’altro, sottopagati e poco tutelati?
«Il futuro lavorativo dei giovani è un tema centrale per tutto il Paese. Nel Sud si è formata una generazione di  persone che hanno elevato il proprio livello di qualificazione scolastica tagliata fuori, però, da un mercato del lavoro che ha pochissimi rapporti con la loro formazione. Il sistema del mondo del lavoro giovanile nel Sud vede una vastissima massa di semi specializzati condannati alla precarietà. E anche gli sbocchi di lavoro per i giovani con alta specializzazione si sono chiusi. Se da un lato, la riforma Gelmini fa sì che la crisi in cui versano gli atenei riduca ulteriormente gli accessi per i giovani ricercatori nelle Università, dall’altro il sistema dell’impresa nel Sud non assume più professionalità alta. Ecco perché anche esperienze virtuose come la STM, che utilizza tecnologia all’avanguardia, si sono molto esaurite e oggi appaiono in forte crisi».

Come se ne esce quindi?
«Guardare ai bisogni delle giovani generazioni senza smantellare il sistema dei diritti, questo occorre fare. Purtroppo le politiche governative, piuttosto che costruire condizioni nuove di tutela di un mercato del lavoro ormai profondamente cambiato rispetto a vent’anni fa, tendono sempre più a delimitare la possibilità di azione del sindacato. In questi anni il governo Berlusconi ha tentato un’operazione di destrutturazione dei diritti e di riforma del Welfare. Invece di allargare l’ambito delle tutele e colmare le mancanze del sistema italiano che tutela più il lavoro a tempo pieno e meno quello precario, punta a diminuire le tutele per tutti Ecco perché il sindacato deve opporsi. Potranno sembrare dei punti scontati, lo so, ma se ne esce solo smettendo di fare demagogia e tornando a fare politica della formazione, politica industriale e politica del territorio con proposte serie».

Parlando di politica della formazione non posso non chiederle quale pensa che sia il ruolo dell’Università in Sicilia, specie a Catania, e quanto questa può influire sulle logiche di cambiamento della città
«La mia impressione è che negli ultimi anni, in questa città, l’Università si sia un po’ ritratta dal rapporto con il territorio chiudendosi sempre più in se stessa. Catania, purtroppo, ha smesso di investire sulla cultura. Una delle innovazioni di cui questa città avrebbe bisogno è appunto far tornare l’Università ad essere una protagonista in tutte le sue componenti, dagli insegnanti agli studenti».

Che visione ha, invece, dell’azione sindacale nel Meridione?
 «Il sindacato nel meridione, in molti casi, è ormai l’unico grande soggetto sociale che resiste ed è presente in settori importanti del mondo del lavoro. Oggi deve però fare i conti con un’estensione massiccia della precarietà che non sempre riesce a rappresentare. Si tratta in particolar modo del lavoro più debole, quello delle donne, dei giovani e il lavoro migrante»

E sotto la categoria “lavoro debole” rientrano anche tutti quei contratti a tempo determinato di quanti, dipendenti spesso part time, occupano posti di lavoro nei grandi centri commerciali. A Catania c’è stata una vera e propria esplosione in questo senso
«Quanto accaduto al Sud, in particolare a Catania, è il risultato della mancanza di governo del territorio che ha moltiplicato la propensione imprenditoriale a sviluppare centri commerciali uno dietro l’altro. Tutto questo ha peraltro creato una contrapposizione tra queste nuove forme di distribuzione commerciale e quelle tradizionali. Il lavoro che si sta concentrando in queste realtà commerciali è lavoro poco qualificato, a tempo determinato, prevalentemente giovanile e mal pagato. Le forme contrattuali non sono solo quelle del part time; si parla addirittura di contratti per il weekend. Da un lato la debolezza dei sindacati ad intervenire, dall’altro il timore dei dipendenti sui quali, approfittando della crisi, s’è fatta sempre più pesante la pressione dei datori di lavoro, sono fattori che hanno contribuito al dilagante lavoro parcellizzato. Bisognerebbe quindi ricollocare il lavoratore dentro al processo produttivo in una posizione che non sia subalterna al datore di lavoro».

Un’altra spiegazione al moltiplicarsi di esperienze simili è però collegata alla presenza della criminalità organizzata sul territorio.
«Sì, queste sono attività che consentono di reinvestire ingenti capitale nella costruzione e in cui, come ormai dimostrato da risaputi fatti giudiziari, è presente capitale mafioso».

Guardando a Catania nello specifico, come riuscire quindi a far convivere legalità e sviluppo?
«Catania è una città che non ha più un progetto di sviluppo e che dovrebbe ripensare a se stessa. La prima innovazione di cui avrebbe bisogno è a livello della cultura, dei diritti e del rapporto con la comunità dei cittadini che la compongono. Una città in cui le lobby e gli interessi si confrontano senza alcuna trasparenza ha bisogno di ritrovare un tessuto organizzato di democrazia e partecipazione».

Nell‘appena trascorso terzo appuntamento con gli Stati Generali si è parlato molto di innovazione e sviluppo guardando in prospettiva una Catania più tecnologica. Cosa pensa di questi incontri sul futuro della città? Da quale innovazione bisognerebbe partire per rendere Catania più vivibile?
«Catania è una città con tante debolezze e contraddizioni dove sono stati fatti pochi tentativi concreti di sviluppo. Pur essendo un catanese appassionato, anche se vivo lontano, ammetto che questa è una città brutta. Catania ha un tessuto urbano degradato, quello che risale agli anni della speculazione edilizia (anni 50-60). Si tratta di un problema non solo estetico ma soprattutto di sicurezza. Facendo i dovuti scongiuri gran parte della città non è antisismica, lo sanno tutti, no?  Pur essendo stato recuperato in gran parte il centro storico, basterebbe pensare a quello che doveva essere Librino e a cosa è diventato, alla vicenda di San Berillo, di Corso Sicilia e Corso Martiri delle libertà, al fatto che finita la sindacatura Bianco il piano regolatore è rimasto fermo altri 10 anni. Catania è una città che si vanta d’essere metropolitana ma in realtà è la sommatoria del vecchio centro cittadino con il disastro urbanistico dei comuni limitrofi. Una concentrazione urbana di almeno seicentomila persone in cui manca una politica della mobilità e dei servizi. Nessuno capisce qual è il rapporto tra le strutture sanitaria e il territorio. Gli Stati Generali fanno respirare tanta innovazione e servono a discutere e riflettere ma ciò che conta è come il mondo politico decide e opera. La mia impressione, da esterno – non vorrei che qualcuno pensasse che lo dico perché non sono stato invitato – è che non esiste alcun rapporto tra queste consultazioni sulla città e un’idea progettuale di cambiamento che l’amministrazione dovrebbe invece concretizzare. La inviterei a parlare degli Stati Generali tra un anno. Verificheremo cosa è rimasto. Io sono un po’ pessimista».
 
Un pessimismo, il suo, che sa molto di lucido ritratto su una Catania che conosce bene e conosce da tempo. Allora, le chiedo: cosa possiamo, anzi dobbiamo fare noi giovani, che tanto critichiamo quanto amiamo questa difficile città, per raddrizzare la gobba dell’elefante?
«Capisco che è difficilissimo essere giovani in questi anni, in Italia e a Catania specialmente, ma le cose cambiano solo se camminano sulle gambe e nella testa delle persone. Gli illuministi hanno fatto la Rivoluzione Francese solo quando sono riusciti a far camminare le loro idee sulle gambe dei sanculotti. Ed è proprio a questo punto che Catania, ma più in generale tutto il Paese, si blocca. Occorre allora trovare i soggetti capaci di portare avanti il cambiamento».

Ascolta i file dell’intervista:

Federica Motta

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