«Lo conosco, è mio cugino, Medhanie Tesfamariam Behre». Altro giro, altra udienza. Ma il copione resta sempre lo stesso, a giudicare dalle ultime udienze del processo che si sta celebrando davanti ai giudici della seconda corte d’assise di Palermo. Dove sotto accusa, da due anni, c’è un imputato che deve rispondere di essere un trafficante di esseri umani e di chiamarsi Medhanie Yehdego Mered. Mentre l’uomo incarcerato al Pagliarelli ha sempre dichiarato di essere un rifugiato in procinto di partire per l’Europa e di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre. Uscito dall’acquario da cui assiste al processo, si è posizionato dove solitamente siedono i testimoni, posizionandosi davanti al microfono e rimanendo immobile. A osservarlo, ancora una volta, dall’altra parte di uno schermo è Hailemichael Ghebrebrham Heyelom, in video collegamento dalla Norvegia.
Cugino per parte di madre, spiega. Con cui è stato in contatto telefonicamente mentre erano entrambi in Africa. «Mentre ero in Libia gli ho telefonato io. E poi mi ha richiamato – continua -. Ero in Libia ad aprile e a giugno del 2016. Ero con due ragazzi, Kesete ed Efrem, siamo partiti insieme dal Sudan. Quando sono arrivato in Europa con me c’era solo Efrem, Kesete è rimasto in Libia. A pagare il mio viaggio è stato lo zio di mia moglie, che adesso è in America, io ero in Libia e non so come ha fatto arrivare i soldi». Mantiene i contatti con la moglie, rimasta in Sudan e in procinto di partorire, è proprio il cugino Medhanie. «L’ho affidata a lui, era il parente più vicino in Sudan. E avevo la possibilità di contattare telefonicamente lui e sua sorella Seghen». Ma sul nodo del pagamento che gli ha permesso di essere liberato dalla prigionia libica alla volta del viaggio per l’Europa insiste, lui non sa nulla: «Non posso sapere come sono stati mandati i soldi per farmi partire, solo Medhanie può conoscere certe cose – insiste -. Parlavo con lui perché era con mia moglie, solo lui poteva muovere, solo lui sapeva come prendere soldi e come pagare le persone che ci tenevano in ostaggio».
Ma esclude che suo quello che nell’aula palermitana riconosce come suo cugino sia un trafficante di uomini, al pari di chi lo ha imprigionato in Libia prima di permettergli di partire. «Io non lo conosco per queste cose, so che mio cugino si è solo preso la responsabilità per me mentre ero lì – dice -. Anche mio fratello Samsom ha pagato per attraversare il mare, non so chi ha pagato per il suo viaggio, ora vive in Svizzera. È stato preso dalle autorità italiane il 26 giugno 2016». Una testimonianza breve ma preziosa. Che si aggiunge a quelle raccolte durante le ultime due udienze, in cui a parlare sono stati Lidya Tesfu, moglie del trafficante Mered, che ha ammesso davanti ai giudici che quello sotto processo a Palermo non è suo marito, e Merhawi Yehdego Mered, che è invece fratello del trafficante e che a sua volta non ha riconosciuto il ragazzo detenuto.
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