Caso Mered, dall’Olanda parla il fratello del trafficante «Non è qui e ho intenzione di testimoniare contro di lui»

«Io sono venuto qua per testimoniare contro mio fratello». E pensare che aveva quasi rischiato di mandare all’aria uno degli esami più attesi dall’inizio del processo. Invece alla fine l’eritreo Merhawi Yehdego Mered ha parlato. Lui, che nelle intercettazioni raccolte è solo Mera, è il fratello del boss della tratta Yehdego Medhanie Mered. Accusa della quale risponde un giovane detenuto al Pagliarelli dal 2016 che ha sempre affermato di essere vittima di uno scambio di persona, di chiamarsi Medhanie Tesfamariam Behre e di essere stato un semplice rifugiato in procinto di partire alla volta dell’Europa. Le autorità olandesi che sono andate a cercarlo questa mattina lo hanno trovato comodamente a casa, da dove non si era mosso perché non si sentiva bene. Dopo non poche interruzioni e sospensioni, però, si è dato il via al fatidico esame.

Due settimane fa a sedere virtualmente sul banco dei testimoni, parlando in video collegamento dalla Svezia, era stata Lidya Tesfu, moglie del trafficante Mered e madre del loro bambino. Che senza giri di parole ha confermato quanto dichiarato già un anno fa a MeridioNews: cioè che l’uomo sotto processo non è suo marito, ma qualcuno che neppure conosce. E l’esame di oggi ha seguito lo stesso copione di quello precedente: fare uscire il presunto Mered dall’acquario in cui assiste al processo e chiedere al testimone dettagli sulla sua identità. «La lista di nomi non mi dice niente, tranne per Yhedego Medhanie Mered, è il nome di mio fratello. Ma quello che vedo qui non è mio fratello», e riecheggia in aula qualcosa di familiare sentito appena quindici giorni fa.

«Che responsabilità devo prendermi? Ho già detto che questo non è mio fratello», domanda poi, prima che l’avvocato della difesa Michele Calantropo prenda la parola. «Mi ricordo di essere stato interrogato nel 2015 dalla polizia olandese», ammette subito, incalzato dal legale. In Olanda, dove ha ottenuto un asilo valido sino a giungo 2019, Merhawi vive oggi con la moglie e i figli. Un ricongiungimento per il quale, sempre nel 2015, si è sottoposto al test del Dna. Mentre riconosce il fratello in due foto che gli mostra il giudice olandese: «Sono diverse, ma è lui in entrambe». Non ricorda però quando ha sentito l’ultima volta Mered. «Non ricordo né il giorno né l’anno, è stato tantissimo tempo fa». Tanti i ricordi sbiaditi nella sua memoria, dall’ultima volta che lo ha visto all’ultimo numero attraverso cui avrebbero comunicato prima di perdere i contatti.

«Il 13 giugno 2016 mi sono rifiutato di sottopormi al test del Dna con la polizia olandese – ammette però alle insistenze questa volta del pm -. Ho rifiutato perché mi hanno detto che mio fratello aveva ucciso tante persone e in quel momento mi sono spaventato e non ho voluto fare il test». Una paura che sembra renderlo circospetto ancora oggi, a distanza di tre anni, dal momento che non comprende il motivo delle domande cui è chiamato a rispondere rispetto alla sua famiglia, alla luce dell’assenza del fratello nel processo di Palermo. «Non capisco queste domande sulla mia famiglia».

Alla luce di quanto messo insieme durante le indagini, prima di lasciare l’Africa Merhawi sembra aver tenuto in piedi contatti e relazioni, ponendosi quasi come intermediario del fratello, a cui faceva rapporto di ogni comunicazione e notizia ricevuta. Questa la storia raccontata dalle intercettazioni captate durante le indagini. A giudicare da quello che racconta alla polizia olandese il 29 settembre 2015, dopo il suo trasferimento in Olanda Merhawi non è rimasto in contatto con Mered, secondo lui all’epoca ancora a Khartoum: «Solo tramite mia moglie», dice. Non è sicuro, inoltre, che lui sia al sicuro: «Non è garantito, specialmente lui che era nell’esercito». Ma sembra che i due, a dispetto della fitta collaborazione rivelata dalle intercettazioni, non abbiano un buon rapporto. Che, anzi, siano molto distanti l’uno dall’altro. «Lui si trovava in Sudan da prima di me, nel quartiere di Sehafa. Da quando sono arrivato a Khartoum ho saputo che si occupava di questo», dice agli investigatori olandesi, riferendosi al traffico di esseri umani. Circostanza che all’inizio, di fronte a una foto del fratello su un giornale, aveva negato. «Era il 2011 – continua -. Non gliene ho parlato, non andavamo d’accordo. L’ho visto per l’ultima volta nel settembre 2012 – ricorda all’epoca – e non ha avuto niente a che fare col mio viaggio in Olanda».

Silvia Buffa

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