Caso Mered, ancora in dubbio l’identità del detenuto «Non è lui, ma nessuno ha il coraggio di testimoniare»

«Quel figlio di buttana è fortunato che l’hanno preso con l’aereo e lo hanno portato fino in Italia». È a partire da questa frase che Abdelfetah Mohammed, in passato rifugiato eritreo e oggi mediatore culturale che aiuta i migranti che affrontano le rotte dall’Africa all’Europa, si interessa della vicenda. Quella di un trafficante di uomini ricercato dalle autorità di mezzo mondo e che risponde al nome di Medhanie Yehdego Mered. Un uomo che viene arrestato mentre sorseggia un caffè seduto a un bar di Khartoum e poi estradato in Italia. Un uomo oggi sotto processo, detenuto da oltre un anno al carcere Lorusso Pagliarelli, e che sin dall’inizio ha dichiarato di essere vittima di uno scambio di persona e di chiamarsi in realtà Medhanie Tesfamariam Behre.

Abdelfetah sul vero Mered sembra conoscere parecchi racconti. «Ho sentito tantissimo parlare di questo trafficante, l’ho sentito dai migranti, ma era un nome in mezzo a quello di tutti gli altri trafficanti, all’inizio», spiega davanti alla seconda corte d’assise, di fronte alla quale si sta celebrando il processo contro il presunto cacciatore di uomini. «Mered non era tra quelli che conoscevo meglio, il suo nome non mi diceva nulla, c’erano trafficanti più famosi che io conoscevo – torna a dire – alcuni li ho anche visti in Libia, li consideravo dei boss. Anche se ho scoperto che ce n’erano altri che non conoscevano, ma è normale, sono tantissimi». È il 31 agosto 2016 quando sente quella frase sul ragazzo detenuto. A parlargli di lui, mentre si trova a Khartoum per trovare la propria famiglia, sono tre giovani eritrei che gli dicono di conoscerlo.

«Appena ho sentito quella frase, ho iniziato a capire quale fosse il problema di questo ragazzo – dice Abdelfetah – Loro tre vivevano nel suo stesso quartiere, erano sicuri che non fosse lui il trafficante. Lo reputano un fortunato, perché è arrivato in Italia senza dover passare per il deserto, il mare, senza passare per niente, direttamente in aereo». Nel loro racconto, i tre amici non si riferiscono mai a lui come un trafficante, ma ne parlano come di un rifugiato in attesa di partire alla volta dell’Europa. «Era un migrante come loro, questo dettaglio neanche si discuteva, era assodato in pratica», dice ancora il mediatore. «Frequentavano il ragazzo qui oggi prima del suo arresto, lo conoscono col nome di Medhanie soltanto, lo hanno descritto come un rifugiato arrivato dall’Eirtrea quasi un anno prima, girava da un bar all’altro e non lavorava. Giravano spesso insieme, lì i quartieri son vere e proprie comunità aperte, si conoscono tutti».

Fino a quando lo stesso Abdelfetah non guarda verso il giovane rinchiuso nell’acquario e prosegue: «La persona seduta qui in aula non è un trafficante. È un anno e mezzo che parlo con persone che conoscono il vero trafficante Medhanie Mered, ma nessuno ha il coraggio di venire qua a testimoniare». Il suo lavoro di mediatore, infatti, lo ha portato a sentire più di un racconto su quel Mered. Così tanti da convincerlo che, come sostenuto dagli amici di quartiere in Sudan, quello detenuto a Palermo non sia il vero trafficante. «Ho conosciuto persone che erano nella mezra gestita da Mered, io ho parlato con loro uno per uno e quando gli ho mostrato la foto del ragazzo che è qui oggi si sono messi a ridere e mi hanno chiesto se stessi scherzando. Ma non vogliono venire ribadisce – Qualcuno perché magari non conosce questo sistema giudiziario e non si fida, altri perché sono passati da posti e carceri nella loro vita dove non esiste questa stessa cultura di giustizia che c’è qui». Di molti di loro Abdelfetah conosce le generalità esatte, che fornirà alle autorità per fare in modo che vengano rintracciati e sentiti in merito a questa vicenda.

Silvia Buffa

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