«Il movente dell’omicidio dell’avvocato Fragalà fu passionale». Lo ha ribadito questa mattina, come già aveva fatto in passato, di fronte alla prima corte d’assise di Palermo la collaboratrice Monica Vitale. Una pista, però, fra quelle battute dalle forze dell’ordine, che all’epoca delle indagini decisero di scartarla per mancanza di elementi concreti che potessero in qualche modo suffragarla.
Non sarebbe, a sentire lei, un delitto voluto dai boss di mafia. Nessun avvertimento, né spedizione punitiva voluta dai reggenti della famiglia di Borgo Vecchio per quell’avvocato sbirru che induceva i clienti a collaborare con i magistrati. Il legale, a sentire ancora una volta il racconto della 35enne, avrebbe tenuto a suo dire un comportamento irrispettoso nei confronti della moglie di un suo cliente detenuto per furto. Monica Vitale avrebbe saputo della vicenda da Gaspare Parisi, un elemento di spicco della famiglia di Borgo Vecchio.
L’avvocato Fragalà avrebbe fatto, insomma, delle avances alla donna sbagliata, cioè alla moglie di Maurizio Russo. Ma per lui i boss non avrebbero mosso un dito. Fu allora, secondo la ricostruzione di Monica Vitale, che sarebbe entrato in scena il cugino, Santino Russo. Un mese prima dell’agguato avrebbe incontrato il capo del mandamento palermitano di Porta Nuova, Tommaso Di Giovanni, chiedendogli di intervenire.
È in questo modo che sarebbe stato deciso, per Vitale, l’omicidio del penalista, aggredito il 23 febbraio 2010 e morto tre giorni dopo in ospedale. Monica Vitale in un primo momento aveva indicato come esecutore materiale del delitto Francesco Arcuri, uno degli imputati attualmente sotto processo. In realtà, come ha ammesso oggi davanti alla corte, Parisi le parlò semplicemente di un certo Francesco ma senza farle alcun cognome. Una tesi, però, ampiamente scartata dalla procura.
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