Caso Farmacia, parla Giuseppe Ronsisvalle Il legale: «Non parliamo di morti e feriti»

Una lunga dichiarazione spontanea – oltre due ore senza interruzioni – per raccontare l’alta qualità della ricerca del dipartimento di Scienze farmaceutiche e l’impegno profuso nel cercare soluzioni alle problematiche all’interno dell’edificio 2 della Cittadella. Proseguono le arringhe delle difese degli otto imputati nel processo per la gestione dei laboratori dell’ex facoltà di Farmacia etnea. Stamattina Giuseppe Ronsisvalle – fino a un anno fa preside della facoltà di Farmacia, coordinatore del Presidio della qualità dell’ateneo e personalità molto nota della comunità accademica – ha reso alcune dichiarazioni spontanee che hanno costituito l’ossatura principale della sua difesa e dei colleghi Giovanni Puglisi e Francesco Paolo Bonina. La sua analisi ripercorre le varie tappe della complessa vicenda, partendo dalla descrizione dei locali e – a livello temporale – andando ben oltre l’arco di tempo preso in esame dal procedimento. Nel 1994, sostiene il docente, il dipartimento catanese è stato il primo a seguire le indicazioni tratte dalla legislazione in materia (la celebre 626). Dal 1998 iniziano le segnalazioni di vapori maleodoranti e la parallela attività del gruppo di professori.

Ma è dal 2000 che inizia il lavoro di ammodernamento degli arredi – cambiando i vecchi armadietti arrugginiti nei quali erano conservati i materiali da utilizzare in laboratorio – e degli impianti di aerazione. Nel mese di novembre viene coinvolto per la prima volta Bruno Catara del nucleo chimico Mediterraneo, il quale posiziona dei campionatori passivi. Le cartucce contenenti carbone animale non rilevano nulla di anomalo, ma nonostante la notizia positiva si invita il personale a non minimizzare nessun potenziale episodio preoccupante. «Questa è la procedura che abbiamo sempre seguito», garantisce Giuseppe Ronsisvalle. Le segnalazioni aumentano in maniera esponenziale fino a quello che viene considerato l’annus horribilis, il 2004. Un periodo iniziato nel dicembre dell’anno precedente, con la morte di Emanuele Patanè.

Per ogni episodio che cita, Ronsisvalle ha una spiegazione. Il malore della dipendente della ditta di pulizie? Qualcuno il giorno precedente avrebbe lasciato una bottiglia di solvente rotta. I gradini in marmo corrosi? Umidità. Fino all’ultimo degli avvenimenti, registrato proprio dal docente. Il 14 giugno 2005, a mezzogiorno, «mentre facevo esami percepisco i vapori irritanti», ricorda. Dopo alcuni mesi in cui la situazione sembrava essere risolta, la notizia viene accolta quasi con esasperazione. Ma parlando con alcuni docenti, si risale a quella che dovrebbe essere la causa dell’ennesima segnalazione: un prodotto per la pulizia a base di fenoli clorurati. Non tossico, ma irritante. Eppure l’attenzione non scema, quindi si chiede un incontro con il rettore dell’epoca, Ferdinando Latteri, il quale delega il direttore amministrativo Antonino Domina (tra gli otto imputati). Da qui si decide di coinvolgere la It group, ditta lombarda esperta in bonifica ambientale e intanto si compiono i lavori di rifacimento dell’impianto fognario. Ronsisvalle chiude il suo lungo intervento assicurando: «Dalla fine del 2005 al 2014 non vengono più segnalati vapori».

Molto più duro l’intervento del suo legale, Pietro Nicola Granata. Riferendosi ai suoi assistiti spiega come i tre avrebbero «respirato più aria di quanto non abbiano fatto le parti civili messe assieme». Imputati che in realtà sarebbero vittime, due volte: «Siamo noi che, se un danno esiste, l’abbiamo subito». E prosegue: «Non sono le puzze, i fastidi, i disagi ad aver interessato l’opinione pubblica. Ma sono le morti». Un filone «sotterraneo» che rischia «di inquinare questo processo». «Non mi si venga a parlare di morti e feriti di Farmacia», scandisce Granata. «Morti e feriti lasciamoli nel loro dolore e parliamo di questo processo».

«Se non è dimostrato che sotto Farmacia negli anni in contestazione vi era una discarica di veleni, viene meno il presupposto di fatto ai reati contestati». Morti presunti e antichi sversamenti, sostiene, non sarebbero prove. «C’è un solo indizio: che vi erano odori fastidiosi che procuravano malessere». E, inoltre, «non vi sono evidenze che parlino di inquinamento del terreno». Con la voce che ancora una volta si alza, Granata chiede: «Ma l’accusa, su quali basi si fonda?».

Il processo, che finora ha viaggiato a ritmi sostenuti, subirà uno stop di quasi due mesi. La prossima udienza, infatti, è fissata per giugno, quando termineranno le arringhe per fare spazio poi alle repliche del pubblico ministero. La sentenza, dunque, non è prevista prima della stagione autunnale.

Carmen Valisano

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