Gent.le Presidente del Consiglio,
le scrivo perché avrei qualche precisazione da fare circa la sua ultima affermazione, quel «gli studenti veri erano a casa a studiare, in piazza solo fuori corso e giovani dei centri sociali». Mi ha fatta pensare, sa? Perché guardando le immagini al telegiornale e quelle dal vivo della mia città, Catania, mi sono detta che le università così come sono adesso devono proprio far schifo, per averci tutti questi fuori corso; e mi sono detta anche che la legge elettorale dev’essere un bel casino se, con quei numeri là di ragazzi dei centri sociali (immagino fosse sottinteso che lei li ritenesse di estrema sinistra), l’unica opposizione che abbiamo in Parlamento siano PD e af-Fini.
A parte questi dettagli numerici, vorrei domandarle: chi sono gli «studenti veri»? No, perché io vorrei raccontarle una storia.
La storia è quella mia e dei miei colleghi e amici: stia tranquillo, non siamo iscritti a nessun partito e non frequentiamo centri sociali (ma solo perché in città ne avevamo uno proprio bello, ma poi la Polizia è andata a manganellare chi lo occupava e ora quell’edificio là è abbandonato).
Vede, signor Berlusconi, io sono una studentessa della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania, sono all’ultimo anno in corso e sono perfino vincitrice della borsa di studio per merito: sa cosa significa questo? Che non dovrei pagare le tasse quando mi iscrivo, né la rata successiva all’inizio del secondo semestre. Significa che i soldi che mi dà l’Università dovrebbero servirmi per comprare i libri che mi consentiranno di studiare per gli esami, esami che mi impegnerò a passare con un certo anticipo rispetto ai miei colleghi, perché il merito deve pur risiedere da qualche parte.
Ora le racconto come stanno realmente le cose, giacché nel disegno di legge che avete approvato questa sera alla Camera sostenete che il merito sia salvaguardato in ogni suo aspetto.
Mi sono iscritta all’Università di Catania dopo essermi diplomata con 100/centesimi. Mi sarebbe piaciuto andare a studiare a Roma, a Tor Vergata, ma a casa mia pure mia sorella è un’universitaria, e mio fratello lo sarà, quindi una figlia fuori sede era meglio non ci fosse. Ho mandato giù il boccone amaro e ho fatto domanda per la prima borsa di studio: lo ricordo bene, era settembre e ancora dovevano cominciare le lezioni. A metà ottobre ho letto sul sito dell’Ateneo che ero tra i vincitori della borsa e, secondo il bando, quello iniziale dei due assegni previsti sarebbe dovuto arrivare a novembre. Si diceva, nel bando, che la tassa d’iscrizione (sui trecento euro) avremmo dovuto anticiparla noi, e che ci sarebbe stata rimborsata nel giro di qualche mese.
Quando mi è arrivato il primo assegno era febbraio, la prima sessione d’esami si era conclusa e se i miei studi si fossero basati su quei soldi sarei stata costretta a rimanere ferma fino alla successiva sessione utile, a giugno. Il secondo assegno era previsto per marzo, ma c’è bisogno che le racconti che m’è arrivato con più di un anno di ritardo? Ah, e di quel primo anno sto ancora aspettando che mi rimborsino la tassa d’iscrizione; lo stesso dicasi per il secondo e per il terzo.
Sa, caro Premier, che ho smesso di stare a sentire i professori? Non tutti, soltanto alcuni, quelli che insegnano quattro materie diverse, con quattro programmi tutti uguali e ugualmente inutili. Trovo ironico che questi docenti abbiano un gran numero di pubblicazioni, che rimarrebbero là, secondo la riforma Gelmini, e che sarebbero pure definiti il fiore all’occhiello di un sacco di facoltà in Italia. Ha idea, invece, di chi adoro ascoltare? I ricercatori. Ce ne sono alcuni che tengono lezioni – sì, gratis; sì, è contro la legge; sì, gli ordinari con lo stipendio sicuro non solo glielo lasciano fare, ma glielo chiedono anche – con una grinta e una competenza che mi fanno appassionare perfino ad argomenti che non avrei mai creduto di trovare interessanti.
Lei, Presidente del Consiglio, e la sua fissazione che se non l’abbiamo votata siamo tutti dei fannulloni comunisti. Ci ha pensato che, magari, non è così?
Due anni fa ho vinto un premio e la mia università mi ha mandata a fare una vacanza studio per tre settimane: sono tornata la scorsa domenica, perché per due anni i soldi non c’erano e c’è voluto un po’ per trovarli. Sono stata a Edimburgo, e la Scozia è così vicina… Le biblioteche erano piene, nelle aule dell’Università ogni posto a sedere era occupato, i giornali studenteschi sembravano copie del “Times” solo più piccole, e c’erano posti dove i ragazzi potevano mettersi a fare teatro, musica dal vivo o cabaret, senza pagare un centesimo, perché secondo le istituzioni scozzesi la cultura è anche aggregazione giovanile.
A Catania la biblioteca della mia università da un anno chiude alle 18:00 ogni pomeriggio: l’Ateneo non ha abbastanza soldi, così ha dovuto tagliare sul personale. Le prime teste a cadere sono state quelle di chi si occupava di lasciare che gli studenti fossero liberi di consultare i testi tutti i giorni, fino alle 20:00 almeno.
A Catania nelle aule dell’Università ogni posto a sedere è occupato, ed è occupato anche il pavimento, lo spazio antistante la cattedra e, qualche volta, i davanzali delle finestre: le classi sono piccole, male attrezzate e inadeguate alle nostre esigenze.
A Catania il giornale studentesco c’è. Sono i colleghi di cui le parlavo prima: ragazzi che vivono lontani dai genitori che inseguono una passione; giovani che lavorano da quando avevano diciott’anni e che scrivono articoli in ufficio, nel tempo libero, di notte, all’alba, negli incastri tra una lezione e l’altra; studenti laureati con voti altissimi, strette di mano e grandi sorrisi che si sono fatti in quattro perché hanno sempre creduto che l’informazione non sia soltanto un gioco per grandi. Ah, lo fanno gratis. Anzi, se proprio dobbiamo dirla tutta, qualche soldo ce lo rimettono anche, visto che l’Università non finanzia niente, giacché c’è da stringere la cinghia.
Gent.le Presidente del Consiglio, non sono forse questi studenti veri? E lo sa dov’erano, oggi e tutte le altre volte che ce n’è stata l’occasione? In piazza, a manifestare contro un disegno di legge che ci taglia le gambe e le ali e che se lo guardate con un certo distacco forse ve ne accorgete pure voi che è uno sbaglio. Perché il nostro futuro è la cultura, e la cultura non è un’azienda, le università non sono società per azioni, non le si può guardare con un occhio imprenditoriale: è un occhio illuminato quello che serve, e le migliaia di persone che hanno bloccato strade e ferrovie se ne sono rese conto.
Voi quanto ci metterete? No, lo dico perché ho l’impressione che i tetti non si libereranno presto di quei poveri facinorosi che lottano affinché i riflettori si mantengano accesi su quelle aule del Parlamento dove si decide il nostro domani senza tenere conto del nostro dissenso oggi.
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