Caparezza è un uomo del Sud. Ne ha i tratti e ne attraversa le problematiche. Sarebbe scontato chiedergli come vive le trasferte nel Meridione, cosa prova al Sud. Basta ascoltare attentamente il testo di uno tra i suoi brani più canticchiati, Vieni a ballare in Puglia, per rendersene conto. «Questa Terra ti manda al manicomio»: a ogni Regione, la propria sintomatologia. Nel backstage, l’artista è disponibile, parla di sé senza filtro. Nel 2003 veniva «dalla monnezza» e nel 2014 canta «non me lo posso permettere». Dove va la musica di Caparezza? «Ero nella monnezza perché casa mia, all’epoca, era un immondezzaio musicale: dischi, oggetti di ogni tipo, strumenti di seconda mano, la mia musica stava nascendo da quel poco che avevo. Oggi, il mio “non me lo posso permettere” non è solo economico, ma ideologico, di comportamento; in questo determinato contesto brucia anche sulla mia pelle il lato oscuro della popolarità».
Prima di salire sul palco promette che, lassù, dirà no alle trivelle. Inizia lo show, la piazza è gremita, le forze dell’ordine concentrate su tutti quei capelli. Hardcore Capa salta come un matto già al primo pezzo, Mica Van Gogh, a proposito di pazzi; veste i panni del pugile e intona Abiura di me. Caparezza non fa spettacolo: dà spettacolo. Dimostra come dai geroglifici alle emoticon non sia cambiato nulla. Il sound è ibrido e potente: da Teste di Modì con le atmosfere della West Coast di Dr. Dre a Nessuna razza, dove il pentagramma si fa rock. «La musica è contaminazione – ci diceva il rapper nei camerini – inoltre, oggi, il web non permette più etichette. Sono d’accordo sulla tripartizione hip hop-elettronica-cantautorato, riferita all’attuale stagione musicale italiana. Ma, mentre il rap ormai fa parte della nostra cultura ed è la norma per i più giovani, la rivoluzione indie-cantautorale degli anni ’90 non sembra essere andata a buon fine. Del resto, la musica è come le generazioni: quella dopo smentisce quella prima».
Sul palco, intanto, si tiene la lectio magistralis del Professor Capa: «Abbiamo Cezanne perché fortunatamente anche i nazisti disubbidiscono». Poi parte la crociata: il ritornello de Il dito medio di Galileo diventa: nessuno sarà più chiamato Matteo (anziché babbeo). Caparezza sarà anche troppo politico, ma spacca. La sua è arte e lui è un creativo; con un estro non creativo nel caso di Cover, da ascoltare con attenzione come China Town. L’Eroe del 2008 combatteva per la pensione, quello dei nostri giorni forse l’ha definitivamente persa, ma almeno con il Jobs Act è a tempo indeterminato. Colpisce anche l’amalgama tra brani vecchi e nuovi, per come l’artista li introduce: è il caso di Ilaria condizionata. «La Sicilia non è teatro di belligeranza, ma di cultura; saluto il coordinamento contro la guerra e la Nato, e già che ci siamo anche i No-Triv». Ha mantenuto la promessa.
Se gli si chiede cosa pensa di un’Europa mediterranea, che inglobi anche i Paesi nordafricani, alla Camus de L’uomo in rivolta, risponde che non crede nel Risiko, nella sociologia applicata allo scacchiere europeo. «Non possiamo essere anti-storici e anti-contemporanei. Prendiamo atto di come stanno le cose e trasformiamole positivamente. Io viaggio molto, e in molti Stati vedo l’integrazione interpretata come la normalità». Conclude il concerto raccontando come Wharol lo abbia salvato dal rischio di banalizzazione. Poi la piazza, scatenata e claustrofobica, esplode per Fuori dal tunnel. Era l’ultima data del Museica Tour, ed è andata alla grande.
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