Siria ha 25 anni ed è un’infermiera di Caltagirone (nel Catanese) che ha preso tre mesi di aspettativa dal suo lavoro – con un contratto a tempo indeterminato – dall’ospedale Sant’Orsola di Bologna, rinunciando anche allo stipendio. «La vita è una», sono le prime parole che dice a MeridioNews durante una conversazione telefonica dalla Tanzania. Il paese dell’Africa orientale dove è arrivata da volontaria del Cope–Cooperazione Paesi emergenti di Catania, la realtà che dal 1983 si occupa cooperazione internazionale, informazione ed educazione allo sviluppo. «Nel mio lavoro in ospedale, mi sentivo che stavo facendo davvero poco e che volevo fare di più». E questo di più Siria Tangorra lo ha trovato a Nyololo, il piccolo villaggio nella regione di Iringa che conta meno di 12mila abitanti, tra il centro di salute rurale realizzato proprio dal Cope e la casa di accoglienza per i bambini rimasti senza genitori.
«La casa di accoglienza in lingua swahili si chiama Sisi ni kesho che significa Noi siamo il domani. Ecco – racconta la volontaria – io ho cercato ogni giorno di rendere migliore questo domani per 21 bambini e ragazzi che ci vivono». E lo ha fatto creando un sistema di monitoraggio più accurato durante le visite mediche. «Un file con un modulo a crocette – spiega l’infermiera – che non tenga conto solo del peso e dell’altezza dei bambini ma che prenda in considerazione tutti gli aspetti delle salute infantile e del benessere». In un territorio dove c’è una bassissima copertura sanitaria a fronte di percentuali di diffusioni dell’Hiv tra le più alte (tra il 20 e il 40 per cento in più rispetto alla media nazionale), di bambini malnutriti o che soffrono di rachitismo. «Da queste basi sono partita con l’obiettivo di lasciare una sicurezza in più per il loro futuro – dice Siria Tangorra – E ho cercato di accompagnarli nella crescita per fare in modo che siano pronti a inserirsi nella loro comunità».
Non solo il cibo, nel villaggio di Nyololo, anche l’acqua è bene raro. «Nella casa di accoglienza c’è un pozzo ma – testimonia la volontaria – la falda acquifera si è seccata e bisogna scavare ancora più a fondo, almeno di altri tre metri, e risanare le tubature». Al momento, la pompa che serve a tirare su l’acqua dal pozzo è manuale e spesso, con fatica, sono i bambini stessi a doverlo fare. O a dover percorrere più di un chilometro e mezzo di distanza per arrivare al primo pozzo più vicino. Ed è per questo che il Cope ha lanciato una raccolta fondi con l’obiettivo di rendere l’accesso all’acqua più semplice. «La prima parola che ho sentito in swahili è stata karibu che significa “benvenuto” – aggiunge Siria Tangorra – ed è lo spirito con cui ho affrontato tutto, anche i momenti di difficoltà che ci sono stati». Tra mancanza di acqua, cibo ed elettricità. «Ciononostante tornerò con la consapevolezza di avere ricevuto più di quello che ho dato – afferma – Il privilegio di potersi confrontare con una cultura nuova, la forza delle strade percorse a piedi sotto il sole e la luce dei bambini della casa di accoglienza che con una pietra e un po’ di terra (che usano come si userebbero un foglio bianco e una matita) sono capaci di creare mondi bellissimi».
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