Broken Flowers

Il ritorno al lungometraggio di Jim Jarmush avviene, dopo la collezione di corti di “Coffee and Cigarettes”, con Broken Flowers: una pellicola che disorienta gli aficionados di Jarmush per un umorismo semplice e poco spigoloso, ma che li conforta nelle consuete sequenze di cinema intelligente e mai scontato.

Jarmush, dunque, riparte da Bill Murray e dalla sua fenomenale mimica facciale. Bill interpreta qui il triste Don Johnston ex-playboy, ex-uomo da tanti quattrini, ex-fanfarone che, con lista delle sue ex fiamme alla mano, parte per un improbabile viaggio investigativo nel tentativo di scovare quella che, anonimamente e via lettera, gli ha annunciato d’essere padre di un ragazzo di diciannove anni. Ad aiutarlo nelle strategie di ricerca ci sta il suo vicino di casa-migliore amico Winston (un simpaticissimo Jeffrey Wright) che, appassionato di gialli e di indagini, fornirà all’amico un preciso dossier sulle sue ex.

Così, lungo le diverse tappe del suo viaggio, percorrendo un’America assolata, Don scopre il suo fallimento sentimentale e più in generale esistenziale in una sorta di road-movie sulla decadenza e la delusione. E’ lui il fiore appassito del titolo, è lui che insegue un’indagine impossibile e sostanzialmente inutile. E il non-finale del film non fa altro che calcare la mano su quest’ultima considerazione.

Bill Murray con la sua pigrizia facciale, la sua fine ironia ed una opaca stanchezza di vita, disegna alla perfezione il personaggio più compassato mai concepito dalla fervida immaginazione di Jarmush. L’attenzione è, quindi, incentrata sui suoi tic, le sue espressioni e le pochissime e fiacche parole. Ci piace citare anche il cammeo di Sharon Stone, che interpreta la fidanzata forse più stravagante del lotto. Il film le restituisce un po’ di quella malizia che non si era abituati a vedere negli ultimi tempi, ma il punto in più sta nel suo fare sensuale terra terra che diverte moltissimo.

Un capitolo a se va riservato senz’altro al regista Jarmush. Il newyorkese campione di un cinema indipendente e concettuale, ritorna in corsa in questo 2005 con l’ennesimo capitolo del suo istrionico catalogo cinematografico. Del passato se ne ritrova molto nel profondo e poco nella superficie. Dove le sequenze, anche se ancora frammentate dal classico schermo nero, sono tra le più languide e morbide della sua carriera ed i personaggi, che popolano la solita america del fallimento, sono terribilmente normali, ponendosi, quindi, come cesura rispetto al misterioso giustiziere di “Ghost Dog” o il cowboy allucinato di “Dead Man”.

Riccardo Marra

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