Brancaccio, gli affari della cosca fra pizzo e imballaggi «Ogni mese mi paga, cornuto e sbirro che non è altro»

«Secchio di spazzatura». Non ha parole gentili Carlo Di Giuseppe per il titolare di un bar in corso dei Mille. Presunto sodale della famiglia mafiosa di Brancacciocoinvolto nel blitz scattato il 19 luglio scorso che ha portato al fermo di ben 34 persone, secondo gli inquirenti è lui quello che si occupa costantemente delle attività illecite per conto della cosca, soprattutto delle estorsioni ai commercianti della zona. «Ogni mese paga, ogni mese! Cornuto e sbirro che è, ci dovevo venire ieri..», dice a un compare. Un titolare a posto, che non dà problemi, che paga con cadenza mensile, quello del bar. Non sta simpatico a nessuno, però, tanto che lui, incaricato di raccogliere la somma dovuta, passa addirittura con un giorno di ritardo, e la scusa è quella di un caffè. «Dici tu, tanto largo, qua! Che facciamo una e una due». Un caffè che diventa la riscossione di una rata del pizzo, consegnata poi a un altro presunto sodale di rango più alto, Giuseppe Caserta, coinvolto anche lui nel blitz.

Di Giuseppe, però, non si occupa solo di estorsioni. Tra le sue mansioni, ad esempio, ci sarebbe stata anche quella di tutelare, per così dire, gli interessi e le attività di chi paga regolarmente il pizzo alla cosca. Non ci sono più i modi bruschi del passato, no. Anzi, ed è questo che forse inquieta più di altro, sono i commercianti stessi che si rivolgono al mafioso di zona quando qualcosa non va e qualcuno minaccia i profitti della loro attività. Una sorta di assicurazione: pago ogni mese, ma se succede qualcosa ho chi mi tutela. È quello che succede con un venditore ambulante di panini. «Devi levare la piastra, perché i carabinieri qua non sono pochi…». Gli dice così Di Giuseppe, al quale il titolare di un panificio della zona si è rivolto per liberarsi del panellaro, divenuto in poco tempo uno scomodo concorrente commerciale. «Minchia mi hanno consumato!», risponde disperato l’ambulante.

I toni del presunto uomo d’onore sono rigidi, tuttavia prova con ragionevolezza a spiegare la situazione: «Non ti dice niente nessuno, però giustamente ci sono quelli che vendono i panini e non mi sembra corretto neanche a me – dice Di Giuseppe – C’è chi si lamenta che fa pochi panini…E io ho cercato…però…Viene alla bottega e dice “noi altri paghiamo, perché?”». È un’obiezione insuperabile quella di chi è costretto a pagare senza trarne vantaggi. «Quello che posso fare io, tolgo il wurstel e il cartoccio perché lui lavora con wurstel e cartoccio…li tolgo e lavoro con la salsiccia, magari con la carne. Che cosa dici? Vedi…perché mi posso andare ad impiccare Carlo!», è la controproposta dell’ambulante, sempre più disperato. «Fammi andare a parlargli. Oggi guadagnati il pane… non li togliere i panini», risponde lui magnanimo.

Del resto, nel mandamento di Brancaccio-corso dei Mille, i rapporti avevano un certo peso. Secondo gli inquirenti, infatti, l’organizzazione faceva leva sul vincolo che accomuna i suoi partecipanti. Un’organizzazione ben strutturata nella quale ciascun personaggio ricopre un preciso ruolo gerarchico e gode, rispetto agli altri, di conseguenti poteri, carisma e prestigio. Capillare l’attività estorsiva, nonostante l’incapacità di alcuni commercianti di piegarsi al pizzo perché già duramente colpiti dalla crisi economica. L’attività estorsiva è il cuore pulsante dell’organizzazione mafiosa, che deve sempre dimostrare la propria capacità impositiva sul territorio. Alcune intercettazioni ambientali chiariscono come le vittime delle estorsioni spesso vengano designate proprio tra coloro che hanno bisogno di una lezione ed altre volte invece tra coloro che gli indagati ritengono affidabili, cioè non inclini alla denuncia.

Ma non c’è solo Carlo Di Giuseppe. Sarebbero stati molti gli uomini a disposizione del mandamento. A coordinare le estorsioni perpetrate nelle zone di corso dei Mille, Guarnaschelli e Sperone ci sarebbe anche Giovanni Mangano, secondo il racconto di un altro uomo coinvolto nel blitz, Francesco Paolo Valdese. Tra gli esecutori, in fatto di pizzo, ci sono anche i fratelli Giuseppe e Natale Bruno. Insieme a loro Salvatore Giordano, poi finito in manette nel 2014, Antonino Marino, Giacomo Teresi e Giuseppe Di Fatta, tutti subordinati a Pietro Tagliavia, per gli inquirenti il vertice del mandamento. E sono tutti i soldi provenienti dalle attività illecite, dalla riscossione del pizzo al traffico di droga e al lotto nero, quelli investiti in una rete di sessanta aziende dislocate in tutta Italia e attraverso le quali, investimento dopo investimento, hanno spazzato via la concorrenza.

I presunti mafiosi di Brancaccio si trasformano in veri e propri imprenditori a cui il fiuto per gli affari non manca, diventando i re indiscussi degli imballaggi industriali. A capo di un ramificato e ben organizzato gruppo imprenditoriale c’è Francesco Paolo Clemente, anello di congiunzione fra imprenditori e boss, che poteva avvalersi di prestanome compiacenti e notevoli risorse finanziarie, alla base di frodi fiscali e false fatturazioni. Il business che gli riesce meglio? Quello delle pedane di legno: dalla Sicilipallets srl di via Messina Montagne a Palermo all’Emilia Pallet con sede a Milano. Una rete fittissima dove ognuno ha il proprio ruolo, da chi si dedica alla ricerca di nuovi prestanome e depositi a chi raccoglie personalmente le somme incassate dalle aziende. A consolidare il tutto sono la parentela familiare e la solidarietà mafiosa tra i membri alla guida del gruppo imprenditoriale, che ne cementa i rapporti e contribuisce al salto di qualità. Quello che li porta a fatturare addirittura oltre 30 milioni di euro nel 2013, rispetto ai quattro e mezzo del 2008, con la possibilità per alcuni sodali di mettersi in tasca addirittura mille euro a settimana. Ma le cose più sono fatte in grande, più rischiano di dare nell’occhio. «Adesso..qualsiasi persona ha i bancali ci va la finanza e li controlla, bisogna mandargli tutti questi documenti», si lamenta un dipendente al telefono con Clemente. 

Silvia Buffa

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