Pizzo a tappeto. A pagare a Bagheria erano tutti: dai centri scommesse e dalle sale giochi ai negozi di abbigliamento, dalle aziende edili ai negozi di mobili, dalle attività all’ingrosso di frutta e di pesce ai bar. Ventidue provvedimenti restrittivi a carico di altrettanti capi e gregari del locale mandamento mafioso sono stati eseguiti all’alba dai carabinieri del Comando provinciale di Palermo. L’accusa, a vario titolo, è di associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsione, sequestro di persona, danneggiamento a seguito di incendio.
Da anni i titolari degli esercizi commerciali del grosso centro alle porte di Palermo versavano nelle casse di Cosa nostra il denaro richiesto, una pressione estorsiva che con il passare del tempo era divenuta soffocante. A tal punto da spingere 36 imprenditori locali a ribellarsi al giogo del pizzo dopo decenni di silenzio. Qualcuno di loro aveva iniziato a pagare dagli anni Novanta: prima in lire poi in euro. Senza soluzione di continuità e finendo sul lastrico.
«Trentasei imprenditori hanno ammesso di avere pagato il pizzo – dice il colonnello Salvatore Altavilla, comandante del Reparto operativo dei carabinieri di Palermo -. Alcuni di loro sono stati sottoposti a vessazioni per anni. È la breccia che ha aperto la strada per assestare un nuovo colpo a Cosa nostra, segno che i tempi sono cambiati e che imprenditori e commercianti finalmente si ribellano».
Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, hanno documentato una cinquantina di estorsioni grazie anche alla dettagliata ricostruzione delle vittime e alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Richieste estorsive che dal 2003 al 2013 si sono susseguite senza soluzione di continuità e che hanno colpito ogni attività economica. Dei 22 boss ed estorsori raggiunti dal provvedimento cautelare solo cinque erano liberi. I particolari dell’operazione, denominata Reset 2, saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa convocata alle 11 in procura.
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