C’è chi lo ha definito il nuovo capolavoro di Tornatore. C’è chi, invece, si aspettava di più, pur chiarendo che i brutti film sono senz’altro altri. C’è chi ne ha evidenziato la raffinata capacità evocativa e chi è rimasto deluso da una trama definita “abbozzata” e poco coinvolgente. Sta di fatto che Baarìa non è di certo passato inosservato. E per verificarlo basta cliccare su un qualsiasi motore di ricerca, che in pochi secondi visualizzerà una miriade di recensioni.
“Baarìa” è l’antico nome fenicio della città siciliana di Bagarìa o, per dirla alla Tornatore, «Baaria è un suono antico, una formula magica, una chiave. La sola in grado di aprire lo scrigno arruginito in cui si nasconde il mio film più personale». Lo stesso film con cui il regista ha voluto omaggiare la sua terra natìa. Una scelta che sembra fatalisticamente contenuta nello stesso cognome del regista, che quasi allude all’ineluttabilità del “tornare” alle radici.
Come ben sanno coloro che cresciuti in un piccolo borgo, raccontare un paese altro non significa che raccontare una strada: il corso principale. «Percorrendolo avanti ed indietro per anni, puoi imparare ciò che il mondo intero non saprà mai insegnarti», ha dichiarato lo stesso Tornatore.
Che sia questo che i critici più critici non hanno colto? Perché non sembra affatto che il regista voglia raccontare il decennio fascista, né il fermento del ’68 in Sicilia. Tornatore mette in scena Baarìa, la sua trasformazione, il suo divenire nel tempo come fosse un essere in carne ed ossa. Tornatore ambienta, contestualizza, dimensiona; dice tutto ma non racconta niente. E questo giustifica le sue scelte, ad esempio quella di servirsi – per il ruolo di protagonisti – di due attori cinematograficamente sconosciuti, ma in grado di parlare il dialetto. O quella di impiegare il cast più popolare (da Roul Bova a Leo Gullotta, da Monica Bellucci a Beppe Fiorello, da Vincenzo Salemme ai comici Ficarra e Picone) per i ruoli minori: le innumerevoli voci del paese.
A Baarìa, Peppino (Francesco Scianna) e Mannina (Margareth Madè) si amano. Non come si ama oggi; bensì come solo allora si poteva fare: senza grandi promesse e con poche parole, che forse poi è l’unico modo di amare davvero. Si amano tanto da “sfidare” l’ostilità della famiglia di lei, non proprio lusingata dal dover concedere la propria figlia ad un “pecoraro”, vale a dire ad un pastore.
Uniti in matrimonio, Peppino e Mannina non esitano ad allargare la famiglia, generando una prole numerosa: la terza generazione del film.
La difficoltà di sbarcare il lunario, però, non impedisce a Peppino di coltivare le sue velleità politiche e di militare nel partito comunista, nella speranza di ricoprire finalmente un ruolo di sostanza.
Intorno a questa vicenda familiare Tornatore costruisce un mondo pittoresco, poetico proprio perchè realmente esistito. Non occorre molta fantasia, infatti, perché Baarìa diventi qualunque altro paese della Sicilia antica, nel quale ritrovare quel mondo tante volte “ascoltato” nei racconti di chi c’era, quasi fino ad incontrarvi quel nonno mai conosciuto.
Un film che non rivela nuove grandi verità, ma che ne recupera di piccole dal passato, raccontando di quando la politica si faceva ancora in piazza – e non a “Porta a porta” – di quando Mina riuniva in casa le famiglie e di quando votare a sinistra conteneva ancora la certezza di schierarsi politicamente contro la mafia. Eppure Tornatore un piccolo parallelismo con la Sicilia di oggi l’ha concesso. La scena di riferimento è quella degli americani giunti a liberarci dal fascismo, predisposti ad imparare il dialetto anzicchè l’italiano. E’quanto tutt’oggi accade alle badanti dell’Est giunte ad accudire i nostri anziani. Se non ci credete, provate a chiedere loro cosa significa “cipudda”!
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