Davanti ad un caffè Ilde Rizzo, professore di Scienza delle Finanze presso il Dipartimento di Economia e Metodi Quantitativi dell’Università di Catania, parla con Step1 della sua esperienza nella commissione Berlinguer (quella del 3+2), degli studenti del nuovo millennio e delle luci e ombre del disegno di legge Gelmini. Mentre il Rettore dipinge il quadro “dell’Ateneo che verrà” a tinte fosche (numero programmato generalizzato, docenti a contratto in bilico, etc.) cerchiamo di capirne di più con la consulenza di una prof che di numeri e bilanci ne capisce. Coordinatrice del master internazionale in “Economics and Administration of Cultural Heritage” organizzato dalla Scuola Superiore di Catania in collaborazione con il Consorzio Universitario Archimede, Rizzo è stata prorettore durante il “governo” di Enrico Rizzarelli.
Professoressa Rizzo, lei ha avuto un ruolo nella commissione Martinotti, quella che preparò i provvedimenti del ministro Berlinguer. Col senno di poi, continua a dare una valutazione positiva di quella riforma che alcuni giudicano “diabolica”? Che ne pensa dell’applicazione del 3+2?
«Per essere precisi, il 3+2 è stato un “fuor d’opera” determinato da un’evoluzione dei fatti paralleli alla commissione. Preso atto della scarsa efficacia del sistema universitario e dell’elevato tasso di “mortalità” degli studenti, la commissione aveva come obiettivo quella di formulare proposte che consentissero articolazioni dell’organizzazione didattica tale da limitare e ridurre questo problema. L’obiettivo ristretto dei lavori della commissione doveva fare i conti con altre grosse questioni, che però all’epoca non vennero mai risolte perché non erano nell’agenda del Governo. Si trattava del valore legale del titolo di studio, dello stato giuridico dei professori universitari, della regolamentazione degli accessi…».
Tutti problemi che si sono riproposti anche oggi…
«In tutto questo dibattito ci fu la conferenza di Bologna e nella commissione ci fu l’apertura al 3+2, una sorta di modello europeo della formazione universitaria. Quella non fu “la” proposta della commissione, ma era coerente con i suoi lavori. Io sono ancora fermamente convinta che, in quel contesto, diversificare il percorso universitario fosse una buona idea. Naturalmente una condizione a margine era che il mercato del lavoro e la funzione pubblica potessero essere ricettivi del nuovo modello».
Insomma resta una sostenitrice del vituperato 3+2.
«L’idea in sé rimane valida, ma avrebbe avuto bisogno di un parallelo coinvolgimento della funzione pubblica, con una revisione della spendibilità dei diversi titoli di studio nel mercato del lavoro. E avrebbe richiesto un atteggiamento più responsabile dell’università, un po’ meno auto-referenziale, più orientato verso la domanda che alle ragioni dell’offerta. Credo – lo dico con dispiacere – che il sistema universitario non abbia risposto adeguatamente».
Non era ancora pronto?
«Molto è dipeso, nelle diverse sedi, anche dal modo in cui è stata attuata la riforma. Ad esempio, partire solo con i corsi triennali e non cominciare anche con le specialistiche, non tenere conto dello scenario complessivo, ha fatto sì che tutti si siano lanciati all’attacco della diligenza del triennio, nell’incertezza di quello che sarebbe venuto dopo. Alla fine ci siamo ridotti ad una moltiplicazione dei pani e dei pesci. Tutto ciò ha portato ad un’offerta formativa in molti casi poco qualificata, molto confusionaria e poco trasparente nei contenuti, creando scompiglio negli studenti e nelle loro famiglie».
Ma allora chi ha combinato pasticci siete stati voi, i professori!
«C’è stata un’ubriacatura collettiva senza tenere conto che le risorse del sistema erano le stesse. Ci sono stati atenei che sono partiti incardinando nei corsi di studio un certo numero di professori di ruolo, qualificando in partenza la solidità dell’offerta. Un modello di quel genere avrebbe potuto produrre una responsabilizzazione del sistema e quindi delle ricadute migliori. In altri atenei la proliferazione dei corsi è stata sconsiderata e quindi, alla fine, le stesse persone si sono ritrovate a fare il triplo, il quadruplo, il quintuplo di quello che facevano prima; o ci si è rivolti agli incarichi esterni, alle docenze a contratto. Che si chiamino professionisti di valore è utilissimo, ma il problema è in che misura e con che qualità. Inoltre il sistema delle remunerazione di questi contratti in alcuni casi è stato mortificante».
In cosa ha sbagliato la comunità accademica?
«Il senso del limite non è stato praticato da tutti e ci siamo trovati corsi in cui si è preteso di insegnare le stesse cose, come si faceva prima. Senza tenere conto che dopo c’è il biennio. Non si può insegnare in un corso triennale con le stesse modalità di uno quinquennale: i vincoli di tempi sono ristretti e quindi le discipline devono tenere conto di tali obblighi e delle compatibilità. A tutti farebbe piacere affermare che ci vogliono sei mesi per dare la propria materia, ma è evidente che se così fosse gli studenti si laureerebbero in 15 anni. Ognuno di noi avrebbe dovuto rivedere i propri corsi, modificare i programmi, cambiare il modo di insegnamento. D’altra parte – e dico una cosa impopolare – insegno da più di 20 e la tipologia di studenti è cambiata significativamente».
Anche lei propone il solito discorso sugli studenti “di oggi”, che sarebbero molto più ignoranti di quelli “di ieri”?
«In tempi recenti mi ritrovo, all’inizio del corso, a dover introdurre concetti che dovrebbero essere stati acquisiti nella scuola dell’obbligo, cosa che prima non mi capitava. E, confrontandomi con i colleghi, non sono l’unica. Ho in borsa 170 compiti che valgono come prova intermedia: se un professore universitario si deve porre anche come problema di controllare accenti, ortografia e apostrofi abbiamo detto tutto».
Già. Ma che può fare l’università per risolvere i problemi a monte, quelli che dovrebbero essere affrontati nelle scuole medie inferiori e superiori?
«Dovremmo mettere a punto strumenti per qualificare gli studenti che iniziano il percorso universitario: creare corsi cuscinetto, corsi zero, “debiti”. Poi occorre calibrare l’offerta formativa per il triennio sapendo che alcuni proseguiranno e altri no».
Cosa ha portato l’università all’attuale situazione? Cos’è mancato?
«Da un lato è mancata la consapevolezza che siamo dipendenti pubblici. Dobbiamo dare conto di quello che facciamo alle famiglie, agli studenti e – più in generale – alla comunità che finanzia il sistema universitario. Dall’altro, diciamoci la verità, le riforme non si fanno a costo zero. Accanto al discorso sull’evoluzione degli ordinamenti, sull’introduzione della valutazione, sulla responsabilizzazione degli atenei, l’università va adeguatamente finanziata. La certezza delle risorse e dei criteri di valutazione, la stabilità delle possibili previsioni del sistema è indispensabile».
Si dovrebbe avere maggiore stabilità del sistema.
«Oggi dovrei sapere cosa succederà nel prossimo triennio, su quali criteri verrò valutata tra cinque anni; in modo tale che io possa introdurre quegli incentivi che portano la mia istituzione e le diverse componenti che ne fanno parte ed evolvere in coerenza con gli obiettivi che sono stati dati. In un clima nel quale – viceversa – c’è stata un’elevatissima incertezza delle risorse finanziarie, una mancata corrispondenza alle aspettative del sistema, per non parlare dei tagli… Non c’è stata stabilità. E inevitabilmente anche le migliori intenzioni (laddove ci fossero state) avrebbero avuto grandi difficoltà ad essere esplicate».
Tornando al 3+2, se dovesse dare un voto alla sua applicazione a Catania quale sarebbe?
«Credo che una riflessione a Catania oggi vada fatta su quella che è la capacità di attrazione del 2: cioè la specialistica. Non ho dati sistematici, ma la mia percezione è che molti studenti che frequentano il triennio, per il biennio guardino altrove. Stiamo rischiando di sfornare laureati triennali, senza preoccuparci sufficientemente del “dopo” e per un’università non è uno scenario auspicabile».
Dopo l’impegno come prorettore è stata in aspettativa per cinque anni. Quando è tornata com’è ha trovato l’Università di Catania?
«L’ho trovata diversa. Ho trovato studenti diversi. Ho dovuto rivedere le mie aspettative e abbassarle. La prima domanda che faccio il primo giorno di corso è: “Quanti di voi leggono un quotidiano non sportivo”? Su 150 persone non ho mai visto più di cinque mani alzate. E questo è un problema. La mia massima aspirazione alla fine di un corso sarebbe che i ragazzi fossero interessati ad aprire un giornale, a seguire un dibattito televisivo. Se riuscissi ad aver trasmesso quanto meno interesse per le tematiche che affronto nella mia materia, lo considererei un successo».
La capacità di discussione all’interno dell’Ateneo le pare adeguata ai problemi?
«C’è un’università in cui si dibatte, si discute. Però quella che ho lasciato viveva gli anni delle speranze, del nuovo che si affacciava e delle aspettative. Oggi c’è delusione. A quelle aspettative non hanno fatto riscontro i risultati che si speravano. C’è da auspicare che il futuro ci riservi la capacità di fare programmi e dare il meglio, potenzialità che in tantissimi di noi ci sono. È stata fatta macelleria mediatica dell’università e tutto questo è stato funzionale a che il taglio delle risorse fosse ritenuto socialmente meno riprovevole».
Passando al DDL Gelmini, cosa ne pensa?
«Penso che ci sia un eccesso di dirigismo; entrare nel merito di dettagli relativi all’organizzazione interna degli atenei non credo sia funzionale a consentire loro di sviluppare la propria organizzazione interna in ragionevole autonomia. Non mi sembra che sia auspicabile questa diarchia presidente del CdA-Rettore, però sono sempre stata possibilista sul fatto che l’università dell’autonomia potesse non avere un sistema di governance basato sull’elettorato e sul consenso elettorale».
Una sorta di visione manageriale?
«No, vorrei che ci liberassimo dai luoghi comuni. Il rettore-manager significa che qualcuno che è responsabile di un’organizzazione pubblica, che utilizza risorse pubbliche per produrre servizi di interesse della collettività, deve farlo in maniera efficiente. Il termine “efficienza” non è una brutta parola: in economia non significa saper fare i conti, ma massimizzare il benessere della collettività. Io ci credo, altrimenti cambierei mestiere».
Ci spiega meglio la sua idea di “efficienza”?
«L’università deve restituire valore alle famiglie e agli studenti. Questa è semplicemente l’idea di un contribuente che paga le tasse e ha diritto a ricevere servizi. Se fornisco servizi di bassa qualità, chi ne risente maggiormente sono i soggetti più deboli. Rendere più efficienti le università significa democrazia. Smettiamola con le frasi fatte che servono solo a mantenere lo status quo. La democrazia passa attraverso la capacità dell’università di essere effettivo fattore di mobilità sociale e le più recenti indagini dimostrano che in Italia ciò non avviene».
Il professor Recca ha recentemente dichiarato a Step1 di nutrire “forti perplessità sulla presenza numerosa di ‘esterni’ nel CdA prevista dal disegno di legge Gelmini, che, nel nostro territorio, si tradurrebbe nella presenza dei politici (si vedano i CdA dei consorzi universitari)”. Cosa ne pensa? Si rischia davvero un’eccessiva “infiltrazione” politica? O crede che l’auspicata presenza di manager esterni possa essere positiva anche nel nostro contesto?
«Come al solito in questo Paese il problema è prevenire le patologie, non regolare la fisiologia. Temo che nel DDL ci sia troppo dirigismo nel prescrivere dettagli che dovrebbero essere lasciati alla libera valutazione degli atenei. Credo che non ci sia nulla di scandaloso nell’idea che l’università possa avere un rettore che non viene eletto da tutte le componenti dell’università. Ma non mi sembra che la diarchia con un Senato accademico al quale vengono attribuiti ruoli marginali sia funzionale. In ogni caso non è facile gestire l’autonomia e la responsabilità dovendo tener conto del consenso elettorale».
Si rischia sempre di scontentare qualcuno…
«È così. Non è facile a maggior ragione perché ci sono componenti molto squilibrate all’interno di un ateneo. Sappiamo benissimo che esistono ambiti che diventano decisivi e prevalenti. E ciò non è coerente con l’obiettivo di un’università capace di rispondere all’interesse pubblico».
A proposito della riforma Gelmini lei ha già ripetuto due volte “eccesso di dirigismo”.
«Il DDL punta poco sull’autonomia e quindi sulla capacità di concorrenza tra atenei. Anche il reclutamento dei docenti è rigidamente disciplinato, ma non credo che la ricerca spasmodica di dure regole risolva il vero problema, ovvero quello della qualità dei docenti e quindi della qualità delle scelte che si fanno. Mi sembra che questo DDL punti più sulle “regole” che sugli incentivi. Non credo che ostinarsi su norme stringenti, che l’esperienza ha dimostrato essere raramente efficaci, possa dare buoni risultati».
Non c’è dunque nessun aspetto positivo in questo progetto di riforma?
«L’attenzione all’efficienza. Ma per attuarla davvero si dovrebbe far ricorso, nel modo più ampio possibile, al coinvolgimento della componente accademica. Anche perché l’università comprende aree molto differenziate. Il sistema già da tempo ha attuato un processo di valutazione interno, il problema è che se ne è fatto poco uso. Mi chiedo quanta ricaduta abbia avuto finora la valutazione».
C’è anche la valutazione affidata al giudizio degli studenti sulle “prestazioni” dei prof.
«Purtroppo non sempre gli studenti sanno fare il loro mestiere. Incalzare il sistema, pretendere qualità… Non mi pare di aver sentito da parte dei ragazzi una posizione forte. Vorrei degli interlocutori più critici sui contenuti, sulle modalità organizzative, su questioni di più ampia portata».
Una delle critiche più frequenti rivolta al DDL riguarda il timore di una privatizzazione dell’università pubblica. In verità la possibilità di convertirsi in fondazioni di diritto privato era prevista dalla precedente L. 133. L’attuale DDL non ne parla più. Cosa crede che succederà? C’è davvero una prospettiva di privatizzazioni?
«Credo che queste etichette vengano agitate come spauracchio per nascondere i problemi veri. Il problema dell’università italiana – semmai – è che non ci sono risorse private che convergono assieme alle pubbliche. Nelle risorse private a complemento delle pubbliche non vedo nulla di pericoloso».
L’ex ministro Berlinguer ha rivendicato la paternità di molti dei contenuti del DDL e propone un’intesa bipartisan tra Governo e Pd per migliorarlo. Pensa che sia possibile?
«Molti temi non sono certo nuovi. L’università e la ricerca scientifica sono argomenti troppo importanti per farne l’ennesimo terreno di scontro demagogico. Credo che i provvedimenti vadano valutati nel merito e non su basi ideologiche».
Pensa che si riuscirà a migliorare l’impatto finanziario al momento della discussione in parlamento?
«Nella nuova versione della finanziaria c’è un piccolo spazio di manovra. Credo sia inevitabile, perché le conseguenze di lungo periodo di una riduzione così drastica sarebbero disastrose».
E’ favorevole al taglio dei fondi per la ricerca votato dal Senato accademico? La professoressa Tiziana Cuccia ha espresso dissenso, lei come la pensa?
«Istintivamente la reazione è “siamo pazzi”!? In realtà è chiaro che qualsiasi proposta di incrementare una posta di spesa deve richiedere una parallela diminuzione. Probabilmente, con i fondi attuali, non credo sia possibile ripristinare lo stanziamento di tre milioni e mezzo che è stato tagliato. Forse simbolicamente uno stanziamento di modestissime dimensioni, che potesse dare un segnale, sarebbe stato auspicabile. Ma non ho le conoscenze del bilancio per dire dove andare a tagliare. Concordo con chi dice “se non qui, dove tagliamo?”».
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