“Australia” è un kolossal. E come tale va giudicato.

Per più di due ore e mezzo lo spettatore deve accettare di essere bombardato da Hollywood in tutta la sua grandezza: budget, grandi attori, scenografia, effetti speciali, colonna sonora, costumi e chi più ne ha più ne metta. E allora è pronto a partire per l’Australia così com’ era pronto a salire sul Titanic.

E se lo spettatore accetta di andare a vedere un kolossal (a meno che non sbagli sala) sa già che come ogni kolossal che si rispetti ci sono dei cliché: c’è la storia d’amore (le cui battute sono ovviamente prevedibili), c’è il contesto storico (bombe ed effetti speciali), ci sono i grandi paesaggi e le grandi ambientazioni.

C’è un melange insomma: amore e avventura, sentimento e suspence moltiplicati per 147 milioni di dollari. A tale cifra, appunto, ammonta il budget di “Australia”.

E se non vi piacciono i kolossal, o comunque se non andate al cinema con lo spirito di chi è pronto a vedere un kolossal, rimanete pure a casa.

Baz Lurhmann (Romeo + Giulietta, Moulin Rouge!) vuole raccontare la “storia d’identità di un continente”. Non è impresa da poco. Ma… c’è riuscito?

 

Storia – identità – continente.

Se vogliamo dare questo taglio ad “Australia” dobbiamo ricordare velocemente i cliché (Nicole Kidman, perfetta English lady in corsetto e ombrellino, che atterra nella selvaggia Australia popolata da buoni e civili aborigeni e sporchi mandriani bianchi, belli come Hugh Jackman, che ubriachi fanno a cazzotti nell’unica osteria del villaggio – e state pur certi che Hugh Jackman li stenderà a terra tutti!), metterli da parte e accettare che ogni storia di identità è una storia di violenza. O meglio di abnegazione.

 

E Australia, essendo una storia di identità, è automaticamente una storia di violenza con particolare riferimento alle “generazioni perdute”: quei bambini nati dallo stupro di una donna nera, rinnegati – ovviamente – dai loro padri, presi e portati in istituti ecclesiastici per “allontanare il nero che c’è dentro” e a cui sono state fatte pubbliche scuse solo nel 2008.

L’identità allora assume varie forme: non è l’identità del continente inteso solo e soltanto come Australia, ma è l’identità di chi vive in questo continente: è l’identità del bambino mulatto (né nero, né bianco), è l’identità intesa come senso di responsabilità verso l’altro, come “nuova vita” lontano dai salotti di Londra o come “nuovo ruolo sociale” all’interno di una famiglia “aggregata” (lei londinese, lui mandriano, il bimbo che non è figlio di nessuno di loro).

Un’identità insomma in cui difficilmente possiamo riconoscere il “popolo australiano” o la “storia” del popolo australiano. Né tantomeno possiamo riconoscere l’identità come uguaglianza. Non almeno in questo caso.

Semmai dobbiamo rovesciare questo concetto e accettare che l’identità è negazione, è violenza, è scelta. E ogni personaggio è negato (non più mandriano, non più lady, non più orfano), ha subito violenza o è emarginato, ha scelto di vivere in Australia o comunque in quella famiglia aggregata pur potendo scegliere altro o rimanere altrove.

L’identità insomma come insieme di provenienze diverse: dall’inglese, all’aborigeno, al mandriano locale.

Quello che ci propone Lurhmann è un ragionamento assai sottile, che rischia di annegare nel marasma del kolossal, ma che è ben visibile nel film specie nella seconda parte, una volta messe da parte le mandrie e le cavalcate ai limiti del precipizio. Quando il film ricomincia e assume un altro volto.

 

C’è un po’ di tutto in quelle due ore e mezzo: avventura, amore, guerra, vendetta. Tutti gli ingredienti che dovevano esserci.

Ma c’è anche qualcosa in più: l’amore materno e quello paterno. Ed è proprio questa la parte più interessante, quella non prevedibile, non scontata e che riesce a coinvolgere lo spettatore anche se né Nicole Kidman, né Hugh Jackman sono al massimo del loro splendore.

Insomma “Australia” non annoierà, non deluderà con la sconfinatezza delle sue praterie, farà persino sorridere e forse a tratti riuscirà a strapparvi un brivido.

E’ riuscito Baz Lurhmann a raccontare la storia d’identità di un continente? Sì, c’è riuscito con un kolossal che ha tutti i limiti del kolossal.

Lucia Occhipinti

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