Cinque anni e quattro mesi di reclusione, oltre a 18mila euro di multa, per Monica Mileti, la donna accusata di aver ceduto la dose di eroina che, nel 2004, provocò a Viterbo la morte di Attilio Manca, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto. Questa la sentenza emessa dalla giudice Silvia Mattei che ha inflitto alla Mileti una pena superiore a quella di quattro anni e mezzo chiesa dal procuratore Paolo Auriemma. Si chiude così il processo per la morte del medico che, secondo la famiglia, sarebbe stato invece ucciso dalla mafia per aver operato Bernardo Provenzano durante la sua latitanza. A dare credito alla tesi sostenuta dalla famiglia, la dichiarazione del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico rilasciata a gennaio 2016 durante un processo. Il pentito avrebbe affermato che a uccidere Manca era stato un agente dei servizi segreti «bravo a far apparire come suicidi quelli che erano a tutti gli effetti degli omicidi». Ma la procura di Viterbo ha escluso questa circostanza sostenendo che non sono emersi elementi che consentano di collegare l’urologo all’ex capomafia, e che gli accertamenti tecnici eseguiti hanno stabilito che Attilio Manca è morto in seguito a un’overdose di eroina.
La madre di Attilio, la signora Angela ha affidato a Facebook la sua amarezza per la sentenza di Viterbo: «Oggi è un giorno di liberazione». Così la definisce la donna che, insieme al figlio Gianluca, dal 2004 si batte per rendere giustizia vera al figlio. «Finalmente dopo 13 anni di umiliazioni, di verità nascoste e negate, di ricostruzioni fantasiose possiamo dire che è finita; ci siamo liberati della Procura di Viterbo – scrive -. Certo che, anche se me lo aspettavo, ho una grande amarezza nel cuore, ma la procura di Viterbo ha sempre sostenuto l’accusa nei confronti di Attilio e oggi con questa sentenza lo ha ucciso per la seconda volta, cercando di togliergli anche la dignità di uomo e la serietà di professionista stimato». La madre di Manca va avanti: «Ha preferito prendere per buone le dichiarazioni di Ugo Manca e dei barcellonesi a lui vicino, con i quali ci sono state frenetiche telefonate dopo la morte di Attilio, e non ha tenuto in considerazione le dichiarazioni di amici e colleghi laziali di Attilio, con alcuni dei quali, come il professore Ronzoni o il dottor De Vecchis, c’era una frequenza e un’amicizia decennale». La donna sottolinea poi come «gli accusatori barcellonesi di Attilio sono gli stessi che, sentiti dalla polizia giorni dopo la sua morte, hanno dichiarato che Attilio non aveva mai fatto uso di droga, per poi cambiare versione e ritrattare non appena si è parlato di delitto di mafia legato al tumore alla prostata di Bernardo Provenzano».
In questi anni durante il processo più volte la famiglia dell’urologo si è vista attaccare, fino a essere stata estromessa. «Abbiamo assistito a insabbiamenti e a esibizione di prove false, che per noi hanno rappresentato dei depistaggi; siamo stati estromessi dal processo, non sono state tenute in considerazione le dichiarazioni di quattro pentiti che collegano l’uccisione di Attilio al tumore di Provenzano. Adesso ripongo fiducia e speranza nel dottor Pignatone che ha aperto un fascicolo per omicidio, anche se da parte di ignoti, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Sono fiduciosa – prosegue – perché la verità su Attilio è tutta fuori e per comprendere che non è morto per overdose basta solo guardare quelle foto scattate dalla scientifica. Io e la mia famiglia – conclude la donna – non ci arrenderemo mai, anzi da oggi continueremo a lottare con più forza».
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